Lunghi anni (Ahi quanto ad affannata salma
Ed allo spirto di sublime alunno
Del canto è duro il tollerar!) lunghi anni
Di calunnie, d'oltraggi e di non vera
Demenza e pene e solitudin stretta,
E l'aspro verme che l'ingegno lima
Quando d'acre e di luce impazïente
Sete il petto divampa: e la ferrata
Grata abborrita, che del sole al raggio
Mentre con la trist'ombra il varco implica,
Per la grama pupilla con acuta
E grave pena al cèrebro penètra;
E nuda schiavitù, che dalle immote
Porte sogghigna, ove non altro passa
Che fioco lume ed insoave cibo,
Onde sì lungo è '1 tempo ch' i' mi pasco
Solo, che più l'amaro suo non m'ange.
Starmi così poss'io, quasi rapace,
Selvaggia belva a desco in questo speco
Fatto già mio covile, e forse tomba.
La carne è inferma; e lo sarà più ancora
Col mal crescente: ma soffrir pur deggio.
Poichè lottai coll'agonia, di speme
Uscir più omai non vo'. Di questa chiusa
Angusta chiostra a sormontar le mura,
Le piume alfin rinvenni. Il Santo Avello
Al servaggio sottrassi: eroi divini
Finsi, ed eteree cose; e in Palestina
Libero, a gloria della sacra guerra,
All'infiammato spirto il vol disciolsi
Per lui che Dio fu in terra ed ora è in cielo.
All'alma ed alle membra Ei lena infuse,
Onde vaglia il perdon quanto soffersi.
A rimembrar come all'odrisia rabbia
Tolto fu di Sïonne il sacro avanzo
E culto ottenne, il cor pentito io volsi.
II.
Ma la piacevol opra, che per anni
Tanti fu mio sostegno, a riva è giunta.
Se l'estrema tua pagina col pianto
Mi è forza cancellar, sappi che stilla
Trarne il dolor non può. Ma tu, fattura
Di fresca età, dell'alma mia tu figlia,
Che ognor con riso e gioco a me d'intorno,
M'innamoravi di tua dolce forma,
Tu ancor svanisti; e teco ogni diletto.
Qual per colpo novel già infranta canna
Son io così percosso: e in cor ne piango.
Sì tu pur mi lasciasti. Or che mi resta?
Altre vi han pene; e soffrirò: ma come?
Nol so: darammi, a sofferir bastante
L'innata forza dello spirto aita.
Saldo sinora io fui, perchè rimorsi
Non ebbi, nè cagion. Pover di senno
Mi appellaro: o perchè? Che allor delira
Er'io nel cor, quando a cotanta altezza.
Erger la troppo inegual fiamma ardìa:
Forsennata giammai non fu la mente.
Errai: ma dell'error più grave forse
La pena fu, che me per duol non spense.
Perchè bella tu fosti, ed io non cieco,
La colpa nacque, che mi tolse al mondo.
Ma non rileva. Incrudelisca e frema
Il punitor: che ognor tua cara imago
Puote il pensier moltiplicar. Vien manco
Fatto pago l'amor, non l'infelice,
Che fè mantien. D'ogni vicenda in preda
Esser ben può : ma suo vigor non perde.
Come rapidi al mar corrono i fiumi,
Ogni affetto in un sol del par si mesce:
Ma, oimè! nè fondo ha questo mar, nè lido.
III.
Odi sopra il mio capo i furibondi
E lunghi lai di spirti e salme in ceppi!
Odi i colpi, e i crescenti urli, e le tronche
Blasfeme voci! Altro, ben altro affanna
Che mental febbre chi lassù percuote.
Punto al cèrebro da perpetuo sprone.
Ogni avanzo di luce tra impotenti
Strazj smarrisce: che di que' tiranni
Solo è il piacer da crudeltà nutrito.
Da manigoldi e vittime son cinto:
Tra clamori e sospir queste sì lunghe
Ore così passai: compiuta forse
Tra sospiri e clamor sarà la vita.
Ebben, compiasi dunque: e avrò riposo.
IV.
Pazïente sinor, deh il sia pur anco!
Tutto obbliar volea: coprì l'obblio
La metà sola: e questa ancor rivive.
Come scordato io son, perchè non posso
Altrui scordar! Ma qual da me perdono
Il disumano aver potria, che in questo
Carcer mi spinse d'infiniti guai.
Ve' non è il riso d'allegrezza figlio,
Nè il pensier della mente: e non linguaggio
La parala, nè l'uom figura umana,
Ed eco al maledir fanno le grida,
Alle percosse i pianti, e un proprio inferno
Ha il prigionier? Chè ben qui molti sono
Ma chiuso ognun da garrula parete,
Che dall'insanie ripercote il grido.
Tutti udir ponno, ed all'altrui dimando.
Niun qui pon mente, niun, fuor che sol uno
E il più infelice: ma per tale al certo
Irrequieta compagnia non nato:
Pur tra i contagi e le demenze astretto.
Qual mai perdono aver potria l'indegno,
Che qua mi trasse, ed oscurò mia fama,
E dell'ingegno altier, cui periglioso
Finse all'idea, contrastò l'uso, e 'l corso
Miglior turbò de' gloriosi giorni?
Avverrà mai che quest'amaro pianto
In lui si volga, e 'l duro sforzo apprenda,
Che il silenzio mi costa, e quella fredda
Necessità, che ogni successo atterra?
No: il superbo mio cor vendetta sdegna.
Poichè del prence perdonai gli oltraggi,
Morir vorrei. Sì, del mio sir germana,
D'ogni asprezza per te si spoglia il petto:
Che tutto ove tu sii presso si molce.
Odia il fratel, non io: ben sei tu sorda
Alla pietade, io nell'amar costante.
V.
Benigno il guardo ad un amor deh volgi,
Che disperar non sa! La miglior parte
Pur di me sempre egli è, benchè non pago.
Siccome lampo nell'ammanto involto
Di tetra nube pria che spinta fugga
La celeste saetta, entro i più cupi
Del sen recessi taciturno giace.
Allo scontro così del caro nome
Il vivido pensier fuor della salma
Si disprigiona, e a lui davante un breve
Momento affaccia le passate cose:
Dispajon elle; ma l'istesso io sono.
Scevra d'ambizïon crebbe la fiamma:
Mio basso stato e tua regal fortuna
M'eran pur conti, e ben vid' io che un vate
Farsi a te non potea d'amor consorte!
Onde mi tacqui, nè mandai sospiro:
Adeguava l'affetto ogni contento:
E se palese il fêro unqua gli sguardi,
Dal tuo silenzio, ahimè! n'ebber la pena,
Nè già men dolsi. Eri per me tu diva
Imago in urna di cristallo chiusa,
Che di lunge adorar solea divoto,
E imprimer baci sulla sacra terra.
Non perchè d'alto sangue eri tu nata,
Ma di gloria, per man d'amor vestita,
E di nova beltà, che i lumi abbaglia:
No, non abbaglia: reverenza inspira
Quasi nume sovrano, alma del cielo:
Eppur ne piove dal sembiante altero
Dolcezza tal, che ogni dolcezza eccede.
Il genio tuo (nè ben so come) avea
Del mio l'impero: a te davante immota
Stavasi la mia stella, e se baldanza
Fu in me l'amar, benchè di speme ignudo.
Non lieve or provo del fallir la pena:
Pur sempre al mio cor sei tu la più cara.
Obbrobrio fora la fatal prigione
Al nome mio, se qui per te non fossi.
Quell'amor, che di ceppi il piè mi strinse,
Ne scemò in parte il pondo, e lena diemmi
A soffrir quel che resta, ancor che duro.
Volger così con indiviso petto
Poss' io ver te lo sguardo e l'aspra guerra
Vincer del mio non menzognero affanno.
VI.
Maraviglia non è. Dal dì ch'io nacqui,
Ebbra d'amor fu l'alma mia, per tutto
Il creato trasfusa. Un dolce incanto
Eran per me le inanimate cose,
Un paradiso i solitarj fiori
E le natie lor piagge. Ivi all'orezzo
Di folte piante mi pascea di sogni.
Mentre fuggian non avvertite l'ore.
Eran del mio vagar frutto le grida
Del savio mastro. Ecco (ei dicea, l'annosa
Fronte ver me scuotendo), ecco lo stame,
Onde si forma il reo: tal fia di questo
Ozïoso garzone un dì la sorte.
Breve la scola, pronta era la sferza:
Ned io piangea: ma tacito dall'imo
Petto lo maledìa: quindi all'usato
Recesso i' fea ritorno, e là, non visto,
Al pianto il fren sciogliea: nè di fantasmi
Era men fabbro che del sonno in grembo.
Ma di strani tumulti e dolci pene
Col crescer dell'età fu l'alma ingombra.
Un desir solo il cor m'empiea: ma vago
E incerto sino al dì che il sospirato
Oggetto alfin rinvenni. Eri tu quella.
Io tutto allor fui di me fuore: immerso
Tutto rimasi in te: nullo era il mondo;
Tolta mi fu dal tuo poter la terra.
VII.
Solitudin mi piacque, è ver; ma questa
Lungi da uman consorzio amara cella,
Solo in mezzo ad insani, e a' lor tiranni,
La libertate del pensier mi toglie.
E se in tal compagnia più lustri innante
Speso avess'io, sino all'estremo giorno
Saria come la lor mia mente offesa.
Ma chi mai delirante ancor me vide?
Assai qui più che su deserta spiaggia
Il naufrago nocchier per me si pena.
È il mondo a lui scoverto: il mio qui chiuso:
E angusto il loco è sì, che quello appena
Raddoppia che fia dato al mio feretro.
Che sebben quel sì mora, almen le luci
Sollevar puote ed accusarne il cielo:
Il letto che sovrasta, a me ciò vieta:
Nè il vorrei pur, s'anco mi fosse aperto.
VIII.
Sento talora che mia mente langue,
Ma con tal senso che fralezza mostra:
Insoliti splendori attorno miro,
Ed uno strano dèmone, che in mille
E mille guise il viver mio tormenta.
E d'uom libero e sano il ben m'invola:
E con doglia maggior, poichè, per lunga
Stagion, pungente cura il cor mi afflisse,
E del carcer l'angustia, e s'altra ancora
Vil pena esser mai può, che il prode attristi,
Nimico mio credea da pria l'uom solo;
Ma seco or forse anco gli spirti han lega.
Mi abbandona la terra, il ciel m'obblia:
In me d'aita privo, e dalle pene
Consunto e dallo sdegno, altre e più fiere
Arti così tentar potrà l'inferno,
Di vittoria securo. Ohi perchè in questa
Fornace mai posto è mio spirto a prova
Quasi acciar nella fiamma, onde si tempra?
È forse perchè amai? Sì, tale oggetto,
Che per vederlo e non l'amar, dovea
O più o men esser che mortal, ch'io stesso.
IX.
Vivi i miei sensi fur; più non son quelli ;
Che gl' induraro i guai se altro io non era
Da quel di pria, già frante in questi ferri
Avrei le tempie, come i raggi frange,
Quasi a mio scherno, il sol. Se tanto io soffro,
E quel più che a spiegar lingua non basta,
È sol perchè con volontaria morte
L' infame nota avvalorar non volli,
Che qui mi avvinse, nè scolpir profonda
La pazza illusion sovra il mio nome,
E mendicar pietade, e far suggello
De' miei nemici alla crudel sentenza.
No; fia mia gloria eterna: e tempio un giorno
Diverrà questa cella, ed inni e culto
Avrà dal Peregrin. Mentre, o Ferrara,
De' tuoi prenci al cader che fia non lunge,
Vote l'ampie tue sale, avrai sol vanto
Dalla corona mia, dal carcer fama,
Sarai d'abitatori allor deserta.
E tu, Leonora, in cui vil già parve
Ch'uom tal ch'io son, te amar potesse, e cara
Esser li spiacque a chi è minor de' regi,
Vanne: e al german di' tu, che delle pene
Ad onta e dei lunghi anni e d'alcun'ombra
D'insania forse, cui poteo la mente
Trar dal contagio del presente abisso,
L' indomito mio cor sempre t'adora.
Di' lui che quando di sue feste e giochi
Non più custodi, fia sol quest'una.
Quest'una parte a eternità sacrata.
E tu quando il folgor, ch'eccelsa cuna
E beltà crea, fia dileguato il lauro,
Dividerai, che ombreggerà mia tomba,
I nomi nostri a separar possente
Morte non fia, come niun mai, me vivo,
Trarti dal cor potrà. Sì; noi congiunti
Vuol per sempre il destin: ma troppo ahi tardi!
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