Non sono mai stato un amante del classico o meglio, la mia visione non è mai stata classica, ma neoclassica. Gli scavi di Paestum o siti come Ercolano, Pompei e Velia, per me non hanno mai avuto una valenza archeologica ma in qualche modo lontana, romantica.
Qualcuno potrebbe dire: cosa c’entra il neoclassicismo con il romanticismo? Il primo mentale l’altro impetuoso. Ho sempre creduto che quella visione del Winckelmann, personaggio di certo illuminista, non era soltanto una ricerca dell’ideale, ma una principale “nostalgia” di un tempo perduto. Una “nobile quiete e serena grandezza” ricercata, prima di un prossimo tempo peggiore, per salvare, almeno intellettualmente, l’inesorabile perdita dell’eterna primavera.
Come ho già scritto in qualche altro post, è innegabile il fatto che tanto tempo fa, l’uomo, ha perso qualcosa di inestimabile e più il tempo passa e più siamo irrimediabilmente lontani. Da allora, la nostra fatica, è sempre stata quella di ritornarci.
Tale visione non è un immaginario, ma un desiderio incolmabile: un giardino fiorito tra i quattro fiumi di cui uno di questi portava all’oro, ma tale oro non era destinato all’avidità degli imperi.
La grandezza del neoclassicismo sta nel fatto che, tale stile (il “vero stile” per quei contemporanei), è stato di per sé tutto neoclassico, poco a che vedere con la Grecia di Lisippo e Policleto. Non credo che Winckelmann, in giro per Atene con una macchina del tempo, sarebbe rimasto entusiasta di quella violenta policromia che caratterizzava statue e templi, né dei bronzi tirati a lucido di dèi ed eroi. I bianchi a tutto tondo, neanche fossero gessi, sono visioni tutte neoclassiche, cioè di quel rimando che il tempo ci restituisce nella sua cruda costante.
“L’unica maniera per essere insuperabili è imitare gli antichi”.
Ma è anche l’unica maniera per azzerare il peso della storia e non rimanere vittime, nei nostri intenti, degli eterei vizi del futuro.
In questa piana, che tante volte è stata meta dei miei viaggi, oggi affollata dal turismo, il pensiero non va indietro, ma molto indietro, dove l’uomo forse non aveva ancora conosciuto la velocità e il rococò dei tempi mediali e magari chissà, ancora terra di aedi, coloro che rispettavano i fiori e cantavano alla gente gesta antiche.
Quell’ideale sempre più lontano non ci arriva quale vento di leggenda perché tale non è. E in questa realtà, perché è certo, ancora sentiamo scorrere il fiume che bagna quel giardino e che da là si divide in altri quattro fiumi.
“All’origine delle società, le arti sono rozze, la lingua barbara, i costumi agresti, ma tutto ciò tende ad avviarsi all’unisono verso la perfezione, finché non nasce il grand gout; ma questo grand gout è come la lama di un rasoio, sulla quale è difficile tenersi in equilibrio. Ben presto i costumi si corrompono… Il discorso allora diviene epigrammatico, ingegnoso, laconico, sentenzioso; le arti si corrompono a causa del raffinamento… si diviene singolari, bizzarri, manierati…” (Diderot)
Donato Arcella
Foto: Paestum scavi con “Cavallo di sabbia” di Mimmo Paladino (foto smart- donato arcella)
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