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22 February 2013
META é gettato al di fuori della partecipazione con la natura e in questa suagettatezza (Geworfenheit) egli incontra anche la sua finitezza temporale, la mortalità8.Prima del dono di Prometeo, infatti, l’uomo abbisognava dell’aiuto della divinità persoddisfare le proprie esigenze di vita; egli era totalmente dipendente e tale rapporto nonera niente di più di quello che intercorre tra una madre ed un figlio piccolo, ancora benlontano dall’autosufficienza.contribuendo al definitivo stabilizzarsi dell’assetto olimpico, dopo la vittoria. La vicenda prometeica sicontraddistingue per due lezioni differenti che tendono a spiegare lo scontro con Zeus: la prima, quella esiodea, farisalire la collera di Zeus alla spartizione del bue sacro; uomini e dei si spartivano un bue che Prometeo stesso divide,ma in modo tale da camuffare le parti migliori come peggiori e viceversa. Zeus scoperto l’inganno decide di nascondereil fuoco e lo stesso Prometeo si incaricherá di rubare per farne dono all’umanità. La lezione platonica (Protagora) narrainvece che i due fratelli Prometeo ed Epimeteo erano stati incaricati di corredare ogni essere vivente di una precisafacoltà, ma sfortunatamente, Epimeteo si accorge di essersi dimenticato proprio l’uomo, lasciandolo inerme ed indifeso:toccherà quindi a Prometeo recuperare il fuoco e corredare l’uomo di ragione determinando la sua uscita dallo statoferino ed animalesco.4 Se ci rifacciamo al racconto biblico, nella genesi, Adamo ed Eva escono dal paradiso terrestre per cominciare la lorovita mortale, tra sofferenze e patimenti.5A livello simbolico il fuoco risulta intimamente legato con la dimensione uranica della divinità: «il fuoco sarebbe ildio vivente e pensante che, nelle religioni ariane dell’Asia, ha portato il nome di Agni, Athar, e presso i cristiani diCristo» (G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, trad.it. di E. Catalano, Dedalo, Bari 1991, p. 172.).Esso simboleggia la dimensione divina nella sua purezza e nella sua potenza. In questo modo agli uomini é dato diavere una scintilla di divino nella propri a interiorità, come ci raccontano gli gnostici. ( A questo proposito è utileconsultare il celebre testo di H. Jonas, Lo gnosticismo, trad. it. di M. Ficcati Di Ceva, SEI, Torino, 1995). 6 La coscienza umana generatasi per lacerazione da quella divina, si caratterizza per la consapevolezza della differenza,del duplice; il dio abita, quindi, la trascendenza, l’uomo il divenire.7Cfr. E. Neumann, Storia dell’origine della coscienza, trad. it. di L. Agresti, Astrolabio/Ubaldini, Roma, 1978. 8 Dopo aver scontato il suo supplizio sul Caucaso il titano viene liberato da Eracle e riassunto nell’ordine olimpico. Perl’uomo Zeus ha in serbo la vera punizione: egli infatti invia sulla terra Pandora (colei che porta tutti i doni) con un vasocontenente tutti i mali del mondo ed elpis, la speranza. L’umanità é così ditata di ragione, ma ora deve fare i conti con lapropria finitezza e mortalità.
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3rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1Il fuoco che Prometeo dona all’uomo rappresenta quindi il veicolo simbolico della suaemancipazione e del raggiungimento di una nuova e superiore condizione, o meglio,dell’approdo alla dimensione umana, attraverso il distacco da quella animale.L’uomo é corredato di tecnica ora9: con essa si apre l’orizzonte del distacco da Zeusma anche quello della propria mortalità10, della propria finitezza. La natura diviene ostile ematrigna l’uomo può, rispetto al dio, vedere le cose nella loro duplicità innanzitutto, equindi nella loro differenza relativa. Ciò apre la possibilità di dominare la realtà una voltadifferenziata nelle sue parti11, di rendere operativa la tecnica, in primis, come processo diselezione oggettuale. All’uomo, inoltre é dato non solo di esistere, come accennavamoprima, ma di ek-sistere: tutti gli enti esistono, le cose gli animali e noi medesimi; l’uomo, inpiù é da sempre aperto originariamente alla comprensione del mondo e allamanifestazione dell’essere.In questo modo egli oltrepassa la totalità uroborica e viene a rapportarsi verso ilmondo inteso come un tu, proprio perché la perdita della condizione aurea ed amniotica lopone di contro al mondo, nella direzione attiva della possibilità. La ragione che si instaura sulla base della consapevolezza delle differenze portaall’uomo la facoltà di poter scegliere e quindi di agire: questo ci racconta il mito, questosimbolizza Prometeo12. Ciò non deve però indurci a considerare il rapporto tra uomo enatura, cioè tra tecnica e natura come sottoposto al volere della pura libertà umana: lanatura é ciò che si ricompone al di là del nostro agire. Per il mito essa é sottoposta non9Hic et nunc da intendersi puramente dal punto di vista simbolico.10Come afferma Heidegger, «l’esser-ci , allo stesso modo, finché é, é già costantemente il suo non-ancora é anche giàsempre la sua morte.11 « Il sapere (episteme) che offre la possibilità o potenza (dynamis) dell’operare tecnico non é un sapere in generale,ma un sapere di volta in volta determinato dall’oggetto specifico di applicazione, trattabile con specifiche competenze,per cui si dà tecnica solo in un orizzonte dove le differenze sono ampiamente dispiegate e determinate nella lorospecificità «.(U. Galimberti, op. cit., p. 60.). Si intende qui rimarcare che se ammettiamo come pre-coscienziale, lo statoamniotico-uroborico di partecipazione animale con la natura, abbiamo anche una non capacità di differenziazione eselezione delle cose percepite come una totalità Il fuoco simboleggia la capacità di dare origine alla differenza e diselezionare, in primo luogo linguisticamente, le parti di quella totalità, che in tal modo cessa di esistere come tale.12 Il supplizio di Prometeo, come accennato in una nota precedente, risulta ricco simbolicamente: l’aquila infatti ésimbolo uranico, di Zeus e ne rappresenta l’autorità e la volontà. Essa é strettamente legata col tema della luce e sicontrappone al mondo della materia e della corruttibilità. Il fegato invece é per eccellenza un simbolo lunare e cioèlegato al mondo materiale, organo sede delle passioni e della animosità. Prometeo in quanto trait d’union tra i duemondi e’ avvolto in questa dicotomia simbolica.
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4rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1tanto al volere di Zeus, quanto a quello della Necessità (Ananke) e della Giustizia (Dike): aqueste due entità tutti sono sottoposti, persino gli dei. Tali forze tracciano il limite, ilperimetro entro il quale sia le azioni umane che quelle divine sono contenute e fanno sìche qualsiasi tentativo di sopraffazione sia destinato a naufragare contro le leggi inviolabilidel cosmo13. La tecnica umana ha, quindi, una propria misura e la vicenda del titano,attraverso anche e soprattutto il supplizio che patisce, insegna che la volontà di dominarela natura14 si ricompone, in ogni caso, all’interno di quest’ultima.La volontà di potenza che si esprime in Prometeo viene punita sulla montagna sacra, ilCaucaso15: l’aquila rode il fegato al titano ogni giorno, dopo che esso si é riformato. Anchese la tradizione ci informa che la vicenda avrà un «lieto fine»16, ciò che ci premesottolineare é che la sua figura risulta ad uno sguardo più attento, ambigua: egli, purappartenendo alla stirpe dei Titani non esita a mettersi dalla parte di Zeus,determinandone la vittoria; d’altra parte non esita a tradire quello per donare il fuoco edemancipare l’uomo. La duplicità prometeica riflette anche la duplicità della tecnica stessa: essa èstrumento di emancipazione ma é un’insidia allo stesso tempo, sia per l’uomo che per glidei. Per la tragedia, ad esempio, l’uomo non é un essere tra gli altri: la sua natura vienepercepita come la più inquietante (to deinotaton), perché essa si rivela come l’indole dellacreatura che esercita la violenza in seno all’essente. Una volta gettato nel mondo egli13Bisogna sottolineare che anche riflettendo sulla parola kosmos (ordine, armonia), il senso tipicamente antico, arcaicoper la proporzione supera di gran lunga il nostro, per intensità. La misura ha per l’uomo arcaico un valoreparadigmatico, magico e sacrale. Ciò per il fatto che egli «misura» a partire da modelli archetipici extraterreni, celesti:nelle varie culture egizia, mesopotamica, ebraica, greca, le cose terrene sono copie di modelli iperuranici..Anche latecnica antica é iscritta in questo ordine di cose. Si pensi a Platone e al suo modello di polis dove la politica, tecnica perantonomasia, si realizza nella dimensione di una città che é modello terrestre della realtà iperuranica. 14La natura va intesa come quell’ente che sorge da sé, cioè che ha contiene in sé la causa del proprio fiorire e delproprio spegnersi.15La montagna sacra rappresenta l’axis mundi, ovvero quel luogo dove i tre livelli del mondo, infero, terrestre e celeste,vengono toccarsi. Esso é ponte ontologico per eccellenza, luogo dove si può realizzare la rottura ascensionale odiscensionale con gli altri livelli, sia dal punto di vista spaziale sia dal punto di vista temporale: si può qui raggiungerela stasi, eterno presente senza tempo che caratterizza la presenza del sacro. La montagna é anche simbolo dellacentralità spaziale: il centro é il punto da cui sui diparte la creazione del cosmo come di qualsiasi mondo; punto diirradiazione originario, condizione di possibilità di esistenza per ciò che intorno ad esso si raccoglie.16Vedi nota 6.
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5rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1deve ritagliarsi il proprio spazio in un mondo differenziato in cui e’ costretto ad aggirarsi17.Egli supplisce alla carenza istintuale che ha, rispetto alla perfezione e alla compiutezzadell’animale, col trovare da sé la sua strada.Sempre per la tragedia egli é pantoporos aporos, cioè capace di percorrere tutte levie ma senza averne una precisa: l’uomo é quindi de-viato dal corso della natura. In questa sua solitudine risiede anche la sua tragica grandezza, cioè l’essere apertoalla progettualità come apertura al mondo e alla temporalità, alla morte ed alla libertà.Pantoporos aporos: in questo ossimoro Sofocle racchiude la tremenda condizionedell’unica creatura che ek-siste al di fuori della compiutezza della natura, poiché l’agireumano tende a lottare contro il nulla ed é destinato ad approdare infine ad esso; il nullache qui si intende é il nulla della morte, orizzonte ultimo e predestinato di ogni vita.18 L’attodi sfida agli dei che Prometeo compie e’un atto duplice: da un lato esso é un’azionefilantropica perché egli sceglie di amare l’uomo, avversando gli dei: dall’altro egli ricreal’uomo, lo riplasma relegandolo nella solitudine della propria volontà.Quest’ultima é, però, orientata dalla scelta che l’uomo é costretto a mettere in attonella mancanza di un’istintualità compiuta: l’uomo elegge dei fini, degli scopi verso i qualiindirizzare la propria tecnica: é per questo che quest’ultima non fa che spostare l’accentodella schiavitù dagli dei a se stessa.L’illusione che Prometeo consegna alla modernità é quella di «sciogliere l’azioneumana dai vincoli posti dalla Necessità, che regge l’ordine cosmico»19. Gli strumentirisultano incapaci di eleggere valori ultimi, perciò la tecnica deve essere governata , se sivuole, da qualcosa di ancora più tecnico, per evitare che ciò che libera divenga a sua voltaciò che imprigiona.17 «Il più inquietante è ciò che è in quanto esso cela in sé un tale principio per cui tutte le cose, per via di un eccesso dipotenza, fanno contemporaneamente irruzione in seno al predominante per sottometterlo».(M. Heidegger, Introduzionealla metafisica, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, p. 162 e segg.) 18Rimane in auge ancora in Sofocle la visione omerica di un aldilà popolato da ombre: un luogo depotenziatoontologicamente rispetto al mondo dei vivi. In omero infatti è solo nel mondo terreno che la vita ha un senso eprecisamente il massimo della aspirazione di un uomo è il raggiungimento della gloria (kleos) in battaglia.19 U. Galimberti, op.cit., p. 256.
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6rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1Temporalità della tecnica.Per l’uomo arcaico esistono due temporalità: il tempo profano, quello quotidiano chenon ha nessun valore dal punto di vista religioso e quello sacro che ha una valenzaontologicamente piena. Il rito, nella costante ripetizione dell’illud tempus, opera lariattuazione del tempo sacro, riproposizione ontologicamente identica di un eventoaccaduto all’origine del mondo.Il rito permette all’uomo un’apertura permanente sul tempo religioso20, grazie al quale nonsolo l’evento originario e’ di nuovo vivificato, ma anche rende possibile annullare il tempoprofano, storico: tutto questo distingue in maniera assoluta l’uomo arcaico da quellomoderno. Per il primo il tempo profano rappresenta, nel suo scandirsi un allontanamentodalla purezza dell’origine: il tempo ha una struttura circolare che rende possibilerecuperare e ripetere i gesti fondanti e cosmologici degli dei. La natura, attraverso i suoiritmi, garantisce la ciclicità del tempo, laddove ogni primavera é importante non tantoperché con essa, la rigenerazione manifesti questa o quella forza, ma per il fatto che conessa venga replicato l’atto primo della cosmogonia.Il tempo arcaico é quindi temporalità eterogenea, profana e sacra: la prima apparecome attraversata da «incisioni»21 nelle quali la seconda può irrompere e vivificare. Inoltre,secondo questa prospettiva, la forma del sacro va estesa anche allo spazio oltre che altempo: come abbiamo accennato in precedenza é dal Centro sacro che ha inizio e siirradia la creazione; il mondo é quindi tutto ciò che é contenuto all’interno dellacirconferenza che si costruisce intorno al Centro22. Allo stesso modo in cui esistono innumerevoli centri sui quali l’uomo può edificareluoghi sacri, garantendo il punto di comunicazione tra i vari livelli della realtà, così esistonodurante l’anno feste e riti che garantiscono la soddisfazione di questa esigenza. Il20M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it. di V. Vacca, Bollati Boringhieri, Torino 1996.21Ivi., p. 403.22 Come nota Guénon, la concezione antica propone una applicazione del simbolismo spaziale, basti pensare alla strettacorrelazione tra le quattro stagioni e i quattro punti cardinali.(R. Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi,Adelphi, Milano).
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7rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1rapporto col sacro si realizza anche nella possibilità di riprodurre le azioni religiose:l’edificazione di una casa, la cura di un campo assumono un connotato religioso, tanto chequeste mansioni si basano sull’imitazione di gestualità divine. L’attività umanapartecipando alla tradizione ed al sacro può accedere alla vera realtà permettendo almondo di rigenerarsi23: in questo senso l’uomo arcaico guarda al mito come a quellatradizione paradigmatica che, descrivendo le gesta di uomini e dei, garantisce quella storiasacra a cui fare riferimento come modello per le azioni umane. Non solo, esso fornisceanche la giustificazione grazie alla quale le cose sono così e non in altro modo e localizzala posizione dell’uomo all’interno del cosmo evitando estraniazione ed inadeguatezza edonandogli un orizzonte di senso a cui fare riferimento. Per quanto riguarda il racconto Prometeico ci imbattiamo in un ulteriore duplicità,cioè in quella che potrebbe definirsi una «stratificazione del tempo»: Prometeo infatti celaun segreto a Zeus: il regno di quest’ultimo dovrà cedere il passo ad un altro potere: lapotenza più efficace della tecnica avrà la meglio sull’arbitrio divino basato sulla forza.Inoltre il titano sa bene che sarà questo rendere vano il potere di Zeus cioè la nuovatemporalità che dalla tecnica scaturirà; la progettualità insita nella scelta di orientare ipropri scopi, dare senso alla finitezza della vita, alla fine avrà il sopravvento.L’uomo vivendo al di fuori del tempo mitico dove il tempo ciclico ritorna su di sestesso, si trova ad abitare la temporalità storica che nelle società arcaiche era gestitacome si é visto sopra, ma che attraverso la civiltà occidentale diverrà vera e propria ansiaverso il futuro. Il tempo della storia è il tempo profano in cui è l’uomo a dettare attraverso la sceltal’orizzonte ultimo da raggiungere; non più il tempo naturale in cui «il fine coincide con lafine»24 del proprio ritmo, ma la proiezione nel futuro dell’intenzionalità del progetto. Inapparente contrasto tra loro questi due aspetti nel pensiero antico coabitano proprioperché la coesione di sacro/profano viene garantita dalla Necessità che tutto governa e23M. Eliade, Il sacro e il profano, trad.it. di E. Ladini, Bollati Boringhieri, Torino 1992.24U. Galimberti, op.cit, p. 73 e segg.
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8rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1che rende la tecnica rispetto ad essa «di gran lunga più debole»25. Il divario tra tecnica eripetizione dell’uguale é puramente potenziale all’interno del pensiero antico: l’enormeforza della tecnica come oggi la conosciamo è, qui, ben lungi dal poter deflagrare. Per questo bisognerà attendere una concezione diversa del mondo per crearel’humus adatto a questa esplosione.Il grande mutamento avviene quando alla visione del mondo greca, in occidente,viene a sovrapporsi il pensiero giudaico cristiano; la visione del mondo introdotta dallaBibbia e sviluppata in seguito dal cristianesimo e quindi dall’occidente stesso, ha duecaratteristiche fondamentali: la volontà di Dio e la storia. Il kosmos greco è un’unitàimmutabile ed increata, destinata ad esistere per sempre: a questa weltanschauung lafede biblica sovrappone l’idea di un mondo creato per atto volontaristico dalla divinità. Lanatura a sua volta non è più il luogo dove l’uomo attende il dischiudersi della veritá intesacome dis-velamento bensì è il luogo deputato al dominio dell’uomo, al quale Dio stessoaffida la possibilità di redenzione dal peccato originale. Adamo, fatto ad immagine esomiglianza di Dio, diviene il protagonista nel mondo: la nuova temporalità esplode: lastoria ora non é solo il negativo del sacro ma è soprattutto il percorso tra l’inizio (creatio exnihilo) ed una fine (eschaton) dei tempi, momento nel quale si compirà il progetto divino.Si passa quindi da una cosmologia nella quale l’uomo riconosceva il proprio ruoloparticolare e limitato ad un’antropologia nella quale la natura è sottomessa ai fini delprogetto divino, declinato secondo la sintassi umana.Inoltre il mondo diviene il locus ove si realizza il decadimento rispetto alla condizioneoriginaria del paradiso26: l’uomo deve espiare il proprio peccatum, la rottura del patto conDio27. In questo modo la natura non può che essere impiegata all’interno di quest’opera:perciò risulta subordinata alla storia, alla temporalità del progetto di Dio; se prima era la25Ibidem.26In questo senso troviamo un’analogia di fondo con il racconto di Prometeo.27 «Il senso del mondo non é più presso di sé ma presso l’uomo, presso la sua storia sacra o salvezza». ( U. Galimberti.,op. cit., p. 287.
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9rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1polis a modellarsi in virtù delle leggi cosmiche, ora è la polis a dettare il ritmo alla natura inbase alle proprie esigenze storiche. L’irruzione del futuro comporta la liberazione del titano dai vincoli olimpici e lapossibilità per la volontà di potenza che egli incarna, di realizzarsi: Prometeo é pronto adiventare Faust28.In ultima analisi va notato che l’idea di storia si lega con l’immagine di un Diotrascendente il mondo: egli non appartiene al mondo, ne è al di fuori pur reggendone lefila. La posizione divina nei confronti della sua creatura è di natura causale: il contrario delkosmos greco dove le presenze divine erano immanenti: ciò comporta inevitabilmente chela terra sia vissuta all’interno di un rapporto di causa/effetto perdendo il suo statuto diautosufficienza29.Nichilismo della tecnica.La tecnica moderna si differenzia da quella antica per il fatto di assumere uncarattere totalizzante: essa diviene l’orizzonte di esperienza all’interno del quale sideterminano le nostre scelte ed il nostro modo di essere-nel-mondo; ciò significa rendersiconto del fatto che la tecnica non è valutabile solo in chiave strumentale, come protesi del28Faust rappresenta, in chiave moderna, la volontà di potenza liberata dai vincoli della necessità garantita da un ordinesuperiore, la volontà dell’uomo di essere egli stesso unico punto di riferimento nel mondo e la conseguente lotta per latrasformazione di quello, contro ogni armonia ed equilibrio prestabiliti.29 Per quanto riguarda la visione del tempo introdotta dal pensiero giudaico-cristiano, bisogna chiarire qualche punto. Sicrea in ambito cristiano l’idea che il tempo segua una precisa direzione, dall’origine alla fine dei tempi, ma tra la primacristianità e l’età moderna avviene un cambiamento cruciale. Se il cristianesimo percepisce l’escatologia (il fineassoluto) come una temporalità che risiede nelle mani di Dio, esterna al mondo, l’epoca moderna concepisce il finecome futuro relativo, umano, degno di essere raggiunto e superato( skopos). Questo sentimento ha origine all’internodel cristianesimo stesso, dato che proprio là che avviene la rimozione dell’idea di apocalisse: tale rimozione fece inmodo che si creasse, a partire dal cristianesimo antico, la fiducia in un inter-tempo di durata imprecisata tra la venuta diCristo ed il suo ritorno, la quale sfociò in seguito in un’idea della storia come progresso. La storia nasce quando altempo viene data una direzione e al di fuori di una visione circolare; il tempo della tecnica si realizza quando figlio dellaconcezione cristiana rifiuta la circolarità naturale e poi, successivamente, si emancipa anche da quella concezione, per ilfatto che il senso del futuro non e’ più assoluto ma relativo alla tecnica stessa. La tecnica moderna adotta la concezionelineare del tempo cristiana ma la priva del fine che al tempo veniva attribuito; la tecnica produce incessantemente degliscopi che devono venire superati, secondo un tempo quantitativo che diviene un non-tempo, una costante autopoiesi.(Qui non-tempo va inteso come l’atto meccanico e seriale insito nella produzione tecnica).
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10rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1soggetto, ma per quanto determini essa stessa, in modo autopoietico, la totale riscritturadel reale30.La tecnica moderna è innanzitutto figlia del nichilismo occidentale, i cui germipotrebbero essere addirittura rintracciati già nel pensiero platonico: ne è figlia perché perla tradizione occidentale gli enti, o più volgarmente le cose, tra le quali anche l’uomo,inteso come animal, hanno non tanto valore in sé quanto relativi ad un processo di pro-duzione, sia esso il progetto divino, sia essa la trasformazione tecnica del mondo. Questoperché l’ente é pensato sin da Platone come inserito nel divenire, legato quindi ad unmovimento di apparizione e scomparsa, legato ad una pura condizione di possibilità. Inquesto modo esso, per la metafisica occidentale, necessita sempre di una «forza», siaessa un Dio, l’uomo, la tecnica che possano garantire questa alternanza tra scomparsa eapparizione delle cose nel loro divenire. Le cose, in sé quindi sono, per la metafisica,niente (nihil). La volontà di potenza risiede nel fatto di credere fermamente che questa oquella forza si faccia garante di questo processo, e che il divenire appaia come il campo dibattaglia sul quale gli enti vengono pro-dotti o distrutti: in fine dei conti ciò significa che ciòche é può, indifferentemente, anche non essere. In questo panorama il demiurgo, qualeesso sia domina liberamente la realtà, la plasma secondo il proprio volere31. Nel divenire avviene che l’essere si determini, secondo l’elaborazione occidentale,come una proprietà che può essere persa o acquisita in questo fluire di determinazioni cheviene a nascondere l’essere stesso: nel pensiero premetafisico non si assiste a talemovimento per il fatto che manca il senso dell’esplicitazione dell’essere; il bisogno diconnotare l’essere linguisticamente secondo il «che cosa esso sia» è un bisogno cherisale in concreto a Platone: il linguaggio pre-metafisico avverte la totale ambiguità difondo che caratterizza l’essere e il suo mistero e, pertanto, ne salvaguarda la dimensionespiccatamente simbolica32. D’altro canto si deve sottolineare il fatto che all’interno dellasfera mitica quindi non si porta alla luce il senso della «verità dell’essere» ma neppure il30 A tale proposito confrontare il testo di P. Bellini, Autorità e potere, Franco Angeli, Milano 2001.31 Per Platone la poiesis é innanzitutto divina: il demiurgo é colui che fa passare le cose dal nulla all’essere. Ilcreazionismo cristiano rende radicale questa prospettiva, ma é l’immanentismo moderno che consegna all’uomo tutta lapotenza del nichilismo.32 Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1999.
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11rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1senso dell’oblio di quest’ultimo, come avverrà nel linguaggio filosofico. Comeaccennavamo prima è la dimensione della possibilità che caratterizza gli enti quindi, dopoche l’occidente inizia in maniera sistematica ad interrogarsi su di loro; inquest’interrogazione, inoltre, è contenuta una sentenza: la dipendenza degli enti dallaforza-guida che regge il loro essere e morire, la loro nullità di fondo. Se secondo la celebretesi heideggeriana, il massimo grado di smarrimento avviene proprio nel momento in cuil’essere dell’ente è pensato come semplice-presenza, ciò avviene in concomitanza con ilfatto che la verità sia vissuta come «potenza da inventare e produrre ogni ordine33». Seper Platone la poiesis è innanzitutto una prerogativa divina, caratteristica del demiurgo,come non rilevare che in epoca moderna, attraverso anche la metafisica cristiana, talepotere passa nelle mani dell’uomo, e quindi in quello della scienza e della tecnica?La modernità, infatti, porta a compimento questo processo attraverso il ruolo che ilsoggetto viene ad avere a partire dal pensiero cartesiano.Innanzitutto attraverso la riscrittura matematico-geometrica del mondo checaratterizza la scienza moderna, avviene il passaggio da un mondo chiuso ad un universoinfinito: tale mutamento determina la perdita della antica visione della natura, la quale siera perpetrata, anche se in modo differente, all’interno del pensiero medioevale, laddovela doctrina cercava, attraverso il dualismo fede/ragione, di comprendere i fini nascostidietro ai fenomeni naturali e attraverso di essi di arrivare a Dio. Con il pensiero moderno,infatti, la scienza diviene una vera e propria teologia autonoma nel tentativo di realizzare ilmotto baconiano scientia est potentia : l’accento si sposta dal trascendente all’immanenteed é il mondo il luogo dove il soggetto fonda il suo sapere scientifico e la sua forza;l’escatologia ed il progetto divino spogliati dalla loro matrice trascendente rimangono comeorizzonti di fondo del sapere scientifico in chiave, però, del tutto autopoietica.Inoltre vediamo come in ambito moderno il mondo o meglio l’essere dell’ente vengapercepito, e questo grazie a Cartesio, come una rappresentazione del soggetto34. Graziealla metafisica cartesiana il soggetto si pone come l’irrinunciabile punto di partenza per la33Già in Platone l’essere é pensato come dynamis (potenza).34 Cfr. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 1998.
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12rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1comprensione del mondo stesso. Il mondo non é nulla senza un soggetto conoscente, ilquale rappresenta il mondo portandolo-dinanzi-a-sè, attraverso la fissità della propriarappresentazione. Questa operazione avviene secondo i criteri di una veristá intesa comecertezza ed infallibilità della rappresentazione: l’ego cogito è il baluardo contro cui ognidubbio metafisico viene ad infrangersi: il mondo si costituisce quindi come immagine,certa, chiara e sicura: l’uomo é il centro di riferimento dell’ente come tale. Larappresentazione avviene all’interno dell’anima dell’uomo e il mondo, il corpo stessovengono ad essere inglobati nella coscienza. In tale modo la realtà é sottoposta ad uncostante processo di oggettivazione: essa è pensata, in primo luogo, come disponibilitàoggettuale.La scienza cartesiana, inoltre, produce una nuova antropologia: il cogito contiene insé le idee matematiche, vero e proprio dono divino, le quali rendono possibile laconoscenza del piano divino: tutto questo avviene nell’io, inteso come pensiero e volontà.Il costituirsi del mondo come immagine, determina la fissa fruibilità della rappresentazionesoggettiva e va di pari passo con l’idea di una tecnica che può disporre a propriopiacimento della natura, in quanto essa è oggetto della rappresentazione. In questo modoil pensiero moderno libera Prometeo dalle catene della necessità, o così sembra volere epoter fare; l’uomo diviene il crocevia di tutti i possibili rapporti e da questo punto di fuga sidispiega la pianificazione ed il controllo del reale: la parola della scienza che per un attimoaveva coabitato con la parola divina nel pensiero di Galileo, è destinata a compiere ilproprio cammino.La tecnica moderna: il rovesciamento del conflitto.Ribadiamo ora che la tecnica premoderna agiva nei confronti di una natura intesacome limite ed orizzonte di esperienza invalicabile: entrambi i modi di agire sia quelloantico sia quello moderno hanno in comune, però, il fatto di essere poiesis; portano allaluce ciò che altrimenti non sarebbe. La natura é poiesis nel senso più alto, secondoHeidegger, perché ha in sé il principio del proprio dispiegarsi: al contrario la techne trovaquesto principio in altro, ovvero é pro-vocazione. La mano umana agisce come ciò che
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13rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1porta al di fuori il nascosto della natura, trasformandola. In questo la tecnica è sempre un«disporre»(Be-stand), e la natura é, sia in antico che nel moderno, concepita come fondodisponibile. Ecco, però, la differenza: in antico la tecnica richiedeva alla natura qualcosache poteva essere prodotto in virtù di un accudire attendente: le energie naturali venivanoutilizzate con accorgimenti tecnici parziali che rispettavano i ritmi stessi della physis. Laprovocazione della tecnica moderna agisce in modo tale a che il reale renda il propriopotenziale energetico nell’ordine della impiegabilità: l’accento si sposta, quindi,dall’orizzonte dell’essere, cioè dall’orizzonte della natura che si dispone sempre così comeé, a quello dell’avere, nel senso che l’uomo accumula energia per poterne disporresecondo i propri piani. La terra diviene, perciò, il luogo della disponibilità energetica in una prospettiva deltutto spersonalizzante, ridotta ad un puro e semplice serbatoio di energia: la realtà apparequindi come un fondo (Bestand) al quale l’uomo è appellato ad attingere35; l’oggettuazionedella natura è segno che l’uomo la percepisce come serbatoio di accumulazione eutilizzando un approccio tecnico di «secondo grado» non solo provoca ma accumuladisponibilità costante.36La trasformazione tecnica del mondo esce quindi dalla condizione puramentestrumentale, per abbracciare un’intensità che ne rende l’affermarsi come una vera epropria manifestazione di morfologia naturale. Se ci rivolgiamo ad un autore come Jüngerpossiamo focalizzare la nostra attenzione sul momento cruciale in cui la trasformazionetecnica del mondo occidentale esplode.Innanzitutto il discorso jüngeriano mette in luce la trasformazione socio-culturale cheavviene in concomitanza con la prima guerra mondiale: in questo momento storico precisoesplodono tutte le contraddizioni del Progresso, inteso come la «grande religione popolare35M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1989, pagg. 9 esegg. Per Heidegger l’uomo appartiene co-originariamente all’essere, e il modo della tecnica moderna rispondeall’appello che in primo luogo e’rivolto dall’essere all’uomo.36Per elementare si deve intendere tutte le forze che da un lato ineriscono alla materia e dall’altro ineriscono agli stratipiù profondi della psiche. Tutto ciò che cade al di fuori della ragione ma da cui essa non deve essere disgiunta, pena ilritorno di tali forze prepotente e senza controllo.
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14rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1del XIX secolo 37», nel senso che il lato «dionisiaco» di questo processo esce veementeallo scoperto. L’attività bellica così come veniva concepita fino ad allora, muta: la guerra dellemonarchie o degli eserciti europei, infatti, aveva il carattere della mobilitazione parziale;venivano, cioè, messe in gioco solo determinate risorse umane e finanziarie e lamobilitazione si modellava, in genere, sulla natura stessa della monarchia.Ora succede qualcosa di diverso e per la prima volta: «l’immagine stessa dellaguerra come azione armata finisce per sfociare in quella, ben più ampia di un gigantescoprocesso lavorativo38». L’arco temporale che prepara la guerra ha i tratti, invece, dellamobilitazione totale, perché non c’é neanche«un movimento, fosse anche quello di una lavoratrice a domicilio dietro la sua macchinada cucire, che non possieda almeno indirettamente un significato bellico».39Lo sforzo mobilitativo ha il preciso scopo di fare affluire questo processo nell’eventobellico, ma, al contrario di ciò che avveniva nel caso di mobilitazione parziale, la portata ditale mobilitazione diviene ora una caratteristica permanente della società.La guerra sta alla mobilitazione totale come la lente sta all’oggetto osservato:vediamo come questo fenomeno continui, quindi, in tempo di pace e finisca col permearel’occidente:»…e’sufficiente osservare lo spettacolo della nostra vita nel suo esuberante dispiegarsi enella sua disciplina implacabile, con le sue aree produttive fumanti e scintillanti di luci, conla fisica e metafisica del suo traffico, i suoi motori, aeroplani e metropoli brulicanti di gente,per intuire con un senso di sgomento e di ebbrezza che qui non c’è un solo atomo che nonsia al lavoro e che questo processo delirante é,in profondità,il nostro destino[…] «laMobilitazione totale non è una misura da eseguire, ma qualcosa che si compie da sé, essa37E. Jünger, La Mobilitazione totale, in Foglie e pietre, trad it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1999, p. 115.38 Ivi, p. 118.39 Ibidem.
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15rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1é in guerra come in pace l’espressione di una legge inesorabile a cui ci consegna l’etàdella masse e delle macchine. Succede che ogni singola vita tenda sempre di più allacondizione del Lavoratore e che alle guerre dei cavalieri, dei re, dei cittadini, succedano leguerre dei Lavoratori.»40.Questo enorme processo lavorativo vede la tecnica divenire il vero ed unico habitusdella società moderna; sintomo evidente é l’adesione delle masse alla prima guerramondiale in modo tanto profondo da essere un definito da Jünger «un fenomeno di naturacultuale»: la guerra ci aiuta a vedere come il richiamo originario del Fondo (Bestand) siriveli in tutta la sua forza. Tale fenomeno rivela i tratti della figura del Lavoratore, la qualeviene a pervadere le società occidentali e le indirizza verso un assetto uniforme etransnazionale:»la tecnica è la nostra uniforme. Siamo d’altra parte troppo coinvolti nel processo perpoterlo abbracciare in tutta la sua ampiezza. Ma se ci allontaniamo anche di poco, se adesempio ritorniamo da un viaggio in un paese solo sfiorato dalla tecnica, risulterà ancorapiù chiaro in che misura noi vi facciamo ricorso. E tanto più in quanto il carattere di comfortdella nostra tecnica tende a confondersi in un modo crescente con un carattere di potenzapura». 41Mobilitazione totale è sinonimo di battaglia globale: questo processo risiede nellatecnica, ma allo stesso tempo la supera, divenendo spirituale ed ideologico. La formaallora si manifesta attraverso l’opera del Lavoratore e nella sua più spiccata attitudine, cioèl’essere-al-lavoro: tale attività, bel lungi dal riassumersi nella banale contrapposizionelavoro/ozio, e’ invece vera e propria condizione ontologico-esistenziale di un nuovo typusumano. 40Ivi, p. 121.41E. Jünger, Sul dolore, in Foglie e pietre, cit., p.168.
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16rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1Il lavoro, che non va confuso in questa sede con il concetto generico di«occupazione», svela la sua radice metafisica agendo come vera e propria messa informa della realtà; dal momento che determinate forze elementari hanno fatto irruzionenella storia in modo così preponderante (fuoco, metallo, minerali, elettricità) trasformandoil reale in un vero e proprio campo di battaglia, un immenso «paesaggio da officina», eccoche essere-al-lavoro é l’attitudine dell’Operaio ad avere a che fare con queste forze che ilpensiero borghese si illudeva di dominare come puri e semplici instrumenta.Il lavoro diviene quindi una categoria dell’essere in atto: da un lato è un’istanzametafisica che si risolve nella Figura, dall’altro è opera del singolo individuo, il qualeriproduce i termini generali applicandosi al singolo e specifico oggetto (carattere totale ecarattere speciale dell’essere-al-lavoro). Il Lavoratore appare, in quest’ottica come il Guerriero che svestito dei suoi pannimilitari e del loro carattere di eccezionalità contingente alla guerra, assume le fattezze dell’homo tecnologicus , costruttore-manovratore, sempre di più uomo macchina. Vero e proprio Titano, nell’atto di scalare l’Olimpo della ratio borghese, l’Operaio cisembra un Prometeo s-catenato: egli deve ricondurre ad un ordine le energie telluricheche si sono affacciate nello spazio borghese.42Come Faust, esso e’incarnazione della volontà di potenza, in chiave non piùspiccatamente individualistica (Nietzsche) ma per assumere con la tecnica che calcola,misura, pianifica, il totale dominio del mondo. Il Lavoratore, inoltre, si manifesta come la radicalizzazione «dell’animal rationale chesi compie nella brutalitas»43, esasperazione dell’antropocentrismo umanistico; Egli risultaessere il massimo grado di ciò che gia appariva in nuce nel pensiero cartesiano: il pianeta42 Secondo Alain de Benoist (L’operaio tra dei e titani, trad. it di M. Tarchi, ASEFI, Milano 2002.), l’Operaio(Arbeiter) rappresenta un nuovo»tipo», una figura produttrice a sua volta di «tipi»che incarna e simboleggia lo spirito diun’epoca Essa stessa riassume al proprio interno il momento storico, non tanto in maniera causale, ma nel senso che sipone come impronta nei confronti del fenomeno epocale. Essa conferisce il senso ad un’epoca nel momento in cui simanifesta, é ciò che permette alla storia di avvenire in quanto essa é potenza preformata, fissa nella sua immutabilità.Per G. M. Chiodi la figura riduce in sé ad unità l’impronta dello spazio, del tempo e dell’uomo stesso. Essa ci appare, inquanto forma, come eidos (non in senso platonico), come teleologica (non in senso aristotelico)e monadologico (non insenso leibniziano).43 C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarsmo planetario, in AA.VV. Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica, acura di A. Ardovino, Guerini, Milano 2003.
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17rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1è un cantiere nel quale tutti gli enti, tra i quali ed in maggior grado l’uomo, sono fruitisecondo la logica della meccanizzazione e dell’ allevamento44.L’essenza della tecnica non e’quindi nulla di tecnico se seguiamo la strada indicatacisia da Heidegger che da Jünger; il Lavoratore é presente ovunque, in società cheapparentemente sono differenti dal punto di vista politico, ma che hanno abbracciato lastessa fede tecnologica: comunismo, nazismo e lo stesso capitalismo americano sono,infatti, forme del nichilismo che la tecnica, come destino dell’Occidente, alberga nel proprioseno e di cui l’Operaio è la manifestazione.Il mondo attuale dove la natura e’ridotta, in totale opposizione con l’antico, adun’enclave nel paesaggio umano, ricalca, per effetto della potenza uniformante dellatecnica, un mondo di insetti quali ad esempio termiti od api45, dovuto al processo dicostante meccanizzazione e razionalizzazione della vita.Il progresso tecnico e tecnologico abbisogna di una sempre crescente capacitàorganizzativa e performativa, l’impatto delle macchine nel quotidiano diviene sempre di piùinvadente e basilare. Ciò che va notato e che risulta inquietante è che questo processo èdel tutto irrazionale ed autopoietico: nel mondo tecnologico le risorse vengono sfruttate aldi là della ragione 46,nel momento in cui la tecnica rincorre solo se stessa, in una costanteansia da record, allontanandosi e sussumendo quell’afflato antropocentrico da cui traeorigine.L’uomo può dominare il reale come mai prima gli era stato possibile, sempreseguendo l’ottica che la tecnica e’in primo luogo pro-vocazione, ma deve dinanzi allostrapotere di quella, accettare il fatto di essere sottomesso alla sintassi delle macchine e dipassando dalla posizione di dominatore a quella di dominato.Oltre alla perdita del proprio spazio originario -dato che, storicamente, egli ha semprecostituito il suo spazio nel limite della natura- ora si vede anche fluttuare in un «tempo44 Ibidem.45 E. Jünger, Al muro del tempo, trad. it. di A. La Rocca e A. Greco, Adelphi, Milano 1990, p.243.46 Per chiarire l’aspetto irrazionale della tecnica e del mondo tecnologico, si consiglia la lettura di due testi: F. G.Jünger, La perfezione della tecnica, a cura di M. Freschi, Settimo Sigillo, Roma 2000. H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione, a cura di L. Gallino, Einaudi, Torino 2004.
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18rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1senza tempo», ovvero nella temporalità misurata e quantitativa che sta alla base dellatecnica e degli strumenti prodotti da essa.Uomo senza tempo anche perché l’uso delle macchine introduce una nuova formamentis: l’idea di una necessità meccanica che va in contrasto con la tradizionale idea dilibertà. All’uomo viene sottratta, in un crescendo continuo, la dimensione soggettiva dell’in-utilità, dato rilevabile nel momento in cui e’sempre richiesto in maggior grado anche ilnostro tempo libero47.Il discorso però deve andare ancora più in profondità: come nota Heidegger pensarela tecnica solo in modo strumentale è riduttivo nel momento in cui l’ausilio di questa oquella strumentazione perde la propria neutralità nel momento in cui il reale viene ri-modellato attraverso lo strumento tecnico; é quest’ultimo che diviene fonte di una nuovapercezione della realtà, modificandola48.Ma questo non significa che la tecnica si limiti ad agire in ambito scientifico esperimentale: in verità essa permea totalmente la società e ci obbliga non solo a rimetterein discussione tutte le categorie tradizionali a cui facciamo riferimento, ma la stessa idea diuomo.Galimberti ad esempio esemplifica questa problematica, nel muovere una critica al«primo» Heidegger:»quando Heidegger, in Essere e tempo, distingueva tra l’aver cura degli uomini (Fürsorge)ed il prendersi cura delle cose (Besorgen), […] questa distinzione che presuppone che irapporti umani siano ancora rapporti tra uomini, e’possibile solo a chi, avendo trascurato inEssere e tempo, qualsiasi considerazione in ordine all’economia, alla sociologia, allapsicologia e alla tecnica, in una parola all’ordine ontico, non si é reso conto che gli uominioggi hanno a che fare, in primo luogo con un mondo di cose e apparati tecnici, nel quale47Se per esempio ci soffermiamo ad analizzare il rapporto dell’uomo contemporaneo con lo sport, possiamo vederequanto queste pratiche non siano reazioni ad una crescente macchinizzazione, quanto forme di adesione implicita aquesto processo. La dura legge del cronometro, il crescente assomigliarsi del corpo maschile e di quello femminile dalpunto di vista atletico forse possono essere considerati sintomi dell’avvento di un uomo-macchina.48 Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica,in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1998.
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19rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1esistono anche altri uomini e non con un mondo umano in cui esistono anche cose edapparati».49e ancora:»a questo punto l’argomento che si sente ripetere fino alla noia, secondo il quale il pericoloinsito nella tecnica risiede nel suo cattivo uso, rivela tutta la sua ingenuità, perchéall’altezza del problema non é questa denuncia, ma la domanda che se davvero l’uomodispone così liberamente della tecnica, se il pericolo é limitato solo al suo cattivo uso, onon sia invece implicito nell’essenza della tecnica in quanto tale che, come apparatouniversale scioglie tutti i rapporti che gli uomini hanno sempre intessuto fra loro, persostituirli con relazioni funzionali a cui accedono individui atomizzati, tra loro coordinati daprocessi di massificazione».50Assistiamo allora al «salto» che la tecnica compie nei confronti dell’uomo: ilsuperamento che avviene da parte della tecnologia nei confronti di qualsiasi antropologiaé figlio di quel soggettivismo che ora dopo aver raggiunto il massimo livello nell’uniformitàorganizzata, la supera.Poniamoci una domanda: qual é la condizione di Prometeo, ora, di questo titano chesciolto dalle proprie catene diviene libero di riscrivere la faccia del mondo? Le creature (macchine)a cui egli ha «dato vita»lo superano e lo mettono in uno statodi «soggezione»: tale condizione appare come una sorta di vergogna prometeica chescaturisce dall’imperfezione dell’uomo dinanzi alla perfezione e alla continua evoluzionedelle stesse.49U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 598.50 Ivi, p. 600.
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20rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1L’uomo sembra, da questo punto di vista, come una vera e propria faultyconstruction, una macchina difettosa, perché il suo corpo é in sé antiquato, nonmodificabile se paragonato alla versatilità del corpo-macchina51.Ad esempio la visione espressa dalle scienze che al corpo sono più vicine, quali medicinao genetica, è quella di cercare di portare avanti un vero e proprio human engeneering, perspogliare il corpo dalla sua fatalità intesa come compiutezza dinanzi all’incompiutezzadella macchina, la quale può sempre migliorarsi.In questo caso si rovescia anche il rapporto che intercorre tra libertà e necessità: lavera libertà è delle macchine, perché esse possono sempre reincarnarsi nei loro pezzimancanti, sfiorando quindi l’immortalità, mentre all’uomo non resta che la contingenza delsuo essere necessitato così come egli é:»in confronto alle intenzioni dello human engeneering, la costruzione della torre di Babeleappare come un’opera di agnellini: le dimensioni che l’uomo infrangeva allora erano soloquelle delle cose fabbricate da lui, solo la grandezza massima consentita ai suoi prodotti.La sua trasgressione era assolutamente «innocente», perché non era stabilito in base aquali criteri egli dovesse fissare la massima grandezza consentita e attenervisi. E, poichél’uomo é libero di fabbricare cose, non può disporre di alcun criterio del genere: a menoche non assuma se stesso come criterio: cioè non stabilisca che il punto limite è raggiuntonel momento in cui egli, divenendo inferiore a se stesso, non tiene più dietro a se stesso,ossia non é più all’altezza dei suoi prodotti, quindi ora».52Nell’attuazione di questa vera e propria rejectio fati egli non fa che confermare lafrase sofoclea che lo definisce «tra tutte le creature, la più inquietante», perché egli sitrasforma «per amore delle sue macchine», e in questo modo egli dà voce ad unsentimento di hybris che é un misto di presunzione e vergogna.51G. Anders, L’uomo e’antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2004.52Ivi, pp. 76-77.
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21rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1Anders afferma che in fondo alla psiche avvenga un conflitto tra l’Io dell’uomo ed ilsuo Es inconscio, ovvero tra la sua dimensione storica e quella psichica, laddove l’Esrappresenta la condizione «pre-individuale»che l’Io porta dentro di sé come una matriceoriginaria, come ciò che é dato all’Io come dote originaria.Il conflitto si scatena tra l’Es che divenuto ora Es tecnologico il quale mette in crisil’Io, che a sua volta si sente inadeguato: ciò che prima era consegnato all’Es comeoriginario, ora si lega indissolubilmente con il processo di creazione di un mondostandardizzato e artificiale rispetto al quale e dal quale l’Io viene rifiutato. Siamo di frontead una radicalizzazione delle problematiche che Heidegger sollevava in Essere e tempo:se laggiù la gettatezza del singolo trovava la salvezza nella ricerca di un esistenzaautentica che si prende cura delle cose e da un singolo che si coglie come «aperto»dinanzi ad esse, in Anders il conflitto appare insanabile perché la battaglia tra Io ed Es sisvolge inesorabile all’interno dell’anima.La vergogna che si genera grazie a questo conflitto allora ha dei sintomi rintracciabiliall’esterno del «campo di battaglia», e non riguarda solo la modificazione incessante delcorpo-oggetto, ma anche nelle abitudini, in quel «culto del Dioniso industriale» nel qualel’epifenomeno è la costante ricerca di perdita dell’Io come ad esempio nella pratica di certedanze o musiche, nella partecipazione sportiva, e in tutto ciò che riecheggia antichi ritiorgiastici.»Colui al quale non e’mai accaduto di sbagliare alla macchina il gesto dovuto e non haseguito incredulo con lo sguardo il nastro trasportatore che continua a scorrere senzaparole; chi non si e’mai trovato sbattuto sulla costa del suo vecchio Io e non ha maiprovato che cosa significa ritrovare se stesso improvvisamente, proprio se stesso; colui ilcui sguardo non é mai caduto sconcertato sulle proprie mani, queste goffe mani la cuiantiquatezza e incorreggibile incompetenza, sono state la colpa della caduta, Ignora qualevergogna sia la vergogna del tempo presente, quale vergogna prorompa oggi giorno,migliaia di volte. E chi contesta la sua realtà lo fa perché ammettere che il nostro
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22rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1meraviglioso progresso ci ha portati oggi al punto di vergognarci di fronte agli oggetti, glifarebbe salire al viso il rossore della vergogna».53In questa prospettiva si ribalta anche il rapporto soggetto-mondo nel momento in cuiattraverso anche l’uso degli strumenti che meglio veicolano l’esterno (radio, televisione)non siamo più noi ad andare verso l’esterno quanto quest’ultimo a venirci a trovare: l’uomodiviene un eremita di massa; cambia quindi inesorabilmente il nostro concetto diesperienza. Il mondo diventa allora un fantasma: un mondo di immagini, dirappresentazioni la cui presenza ci sfugge o si cristallizza nell’u-topia di poter esseredovunque e comunque.Ecco che l’uomo appare quindi come un ibrido: da un lato si rispecchia nell’infinitàdei propri prodotti, dall’altro si vergogna della propria imperfezione: si trova cioè ad aver ache fare con quello che Anders chiama il «dislivello prometeico», ovvero la sproporzioneesistente tra gli oggetti della tecnica che, come degli eidola, rimandano ad un sapere cheessi rendono oggettivo, conformato, ed il sapere del singolo soggetto che si smarriscedinanzi ad essi. Le opere della tecnica tendono ad essere sempre «un passo più avanti»:in esse si riflette un sapere o più saperi che oggettivati, sono fruibili ma nonnecessariamente comprensibili in tutto e per tutto54; tutto ciò provoca un senso dialienazione.ConclusioniLe tematiche qui avrebbero ovviamente bisogno di una trattazione ampia edettagliata ma che in questa sede non é possibile mettere in atto. La cornice simbolico-mitica da cui si e’ partiti garantisce, invece, la possibilità di definire una prospettiva sullatecnica, dove il problema della trattazione diacronica dei fenomeni analizzati, può trovareun punto di riferimento non vincolato semplicemente ad un’analisi storica.53Ivi, p. 120.54E’ per questo motivo che Jünger afferma che la tecnica ha in sé qualcosa di magico: tecnica e magia coincidono nelfar sembrare realizzabile ogni desiderio.
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23rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1Abbiamo iniziato questo articolo col cercare di definire il rapporto che intercorreva nelmito di Prometeo tra l’uomo e la natura, mettendo in risalto l’idea di fondo che nel mitoveniva espressa, cioè che qualsiasi attacco all’ordine naturale della Necessità debbaessere destinato a naufragare inesorabilmente. Il mito inoltre sottolinea a gran forzaquanto sia intrinseca all’uomo la pulsione, il desiderio di sferrare costantemente questoattacco, tanto da rendere questo modo di essere come discrimiante del rapporto cheintercorre tra cielo e terra. Il mondo contemporaneo ha trasformato, ad una velocità impressionante, il pianeta inun immenso cantiere sovvertendo in qualche decennio gli equilibri che lo reggevano datempo immemorabile. Non si tratta, a nostro avviso, di domandarsi se sia il caso o no diintonare un de profundis per questa inesorabile trasformazione e di rimpiangere «i beitempi andati», ma di porsi la domanda se e come questo processo potrà arrivare ad unpunto di equilibrio senza che ciò corrisponda semplicemente ad una totale devastazione:punto di equilibrio che dovrebbe corrispondere alla vittoria della Necessità, come suggeritonel racconto mitico.Se ci rifacciamo allo Jünger di Al muro del tempo dove la prospettiva morfologico-naturale é portata ai suoi sviluppi più estremi, vediamo come il processo di trasformazionedel pianeta si possa valutare come una vera e propria volontà della Terra di cambiarepelle, attraverso la mano dell’uomo. Tale prospettiva esula da un’analisi filosofica in sensostretto per entrare in un campo che a molti può fare storcere il naso: eppure come ipotesidi riflessione, non é inferiore a tante supposizioni anche, tutto sommato, menoaffascinanti. Gli autori qui citati mettono in gioco una visione del mondo dove non solol’uomo é agente di questi processi, ma anche e soprattutto risponde a qualcosa che nongli appartiene del tutto: l’essere. Il richiamo che viene da essi fatto é di ricollocare l’uomo in una prospettiva più ampiarispetto alla tradizione razionalistica: ragione e mito debbono convergere, collaborare,
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24rivista di filosofia on-lineWWW.METABASIS.ITmarzo 2006 anno I n°1poiché l’uno senza l’altra sono destinati a divenire, in modo diverso, ma egualmentenegativo, mostri55.Non si tratta quindi di demonizzare la tecnica, ma di cercare di comprenderla: e pareche proprio in questo preciso momento un certo tipo di pensiero non riesca a dare rispostesufficienti. Quale sia il nostro destino, se un giorno saremo cyborg disumanizzati o vivremoin un fantastico equilibrio di tecnologia e natura, non é possibile saperlo; cercare dipensare fino in fondo la tecnica ora é forse il modo migliore per preparare qualcosa dibuono nel domani.In ogni caso speriamo con HölderlinCreatore là dove sono «Dio in Dio»[2]. «L’idea dell’opera esiste nell’intelletto pratico del creatore come oggetto della sua comprensione, grazie alla quale gli è dato esprimere l’idea cui in concreto conformare l’opera»[3]. Il che significa che l’opera esiste nella mente dell’artista non come un modo di comprensione, ma come una realtà già nota direttamente, come è vero che «la lettera dell’alfabeto che io scrivo è identica all’immagine che la mia mente ha della lettera, non alla mente stessa»[4]. Ogni minimo particolare nell’opera corrisponderà ad analoghi dettagli di forma nella mente dell’artista: «Nessun architetto contiene in testa il progetto globale di una casa, senza i progetti di ogni suo particolare»[5].

Ancora: «La forma, l’idea o l’aspetto di una cosa, per esempio di una rosa, è presente alla mia coscienza e deve esserlo per due motivi. Il primo è che in base all’aspetto della sua forma mentale (jnana-sattva-rupa) posso dipingere la rosa in concreto, dal che deduco esservi nella mia mente un’immagine della forma-rosa. Il secondo motivo è che a partire dall’idea soggettiva di rosa mi è dato riconoscere la rosa reale, anche se in realtà non la imito (ossia, non la riproduco in pittura). Così come posso avere in mente l’idea di una casa, pur non costruendola»[6]. «Per plasmare un vaso, l’artigiano prende un pugno di argilla; tale è il mezzo su cui egli opera. La forma conferita al vaso è nella sua mente, ed è più nobile della materia utilizzata»[7]. Per quanto poi riguarda il modo di esistere di tale forma nella mente dell’artista: «Un altro potere dell’anima è quello grazie al quale essa pensa (dhi, dhyai). Questo potere è in grado di raffigurarsi cose che non sono presenti, tanto che riesco a vederle come le vedrebbero i miei occhi, e perfino meglio. Se mi è possibile vedere una rosa d’inverno, quando non fioriscono rose[8], in virtù dello stesso potere l’anima produce (akarshati) cose traendole dal non-esistente (hrdaya-ảkảsha), al modo in cui Dio crea dal nulla (kha= χάος)»[9]. In ogni caso, «per essere giustamente realizzata, una cosa deve procedere dall’interno, mossa dalla propria forma; dall’interno all’esterno, non viceversa»[10].

In altre parole, come «l’anima è la forma del corpo», così nell’artista l’arte è la forma dell’opera: «Il taglio del legno proviene dalla sega; ma ciò che, a lavoro finito, assume la forma di un letto proviene dal progetto» (presente nella mente dell’artista); «nella sega o nell’ascia non vi è attualmente la forma del letto, ma l’impulso a una tale forma»[11]; e ancora san Tommaso, citando Avicenna: «Tutte le forme nel regno della materia procedono dalla mente». Il sorgere di un’immagine proviene non da un atto di volontà, umana o divina, ma di attenzione (dharana), quando la volontà è in stato di quiete; il semplice possesso di immagini non ha nulla di meritorio in sé[12], dato che l’immagine «riceve tutto l’esser suo dall’oggetto di cui è immagine, ed è un prodotto naturale … anteriore alla volontà, la quale segue all’immagine»[13]. Il processo estetico che si verifica quando parlo è il seguente: qualcosa «zampilla in me, poi diventa un’idea sulla quale rifletto, quindi la esprimo»[14]; o ancora: «Quando la mia mente concepisce una parola, essa è dapprima sottile e intangibile; diventa una vera parola non appena prende forma nel pensiero; e quando, infine, la mia bocca la pronuncia ad alta voce, non è che l’espressione esteriore di una parola interiore»[15]; «La mente vede e formula, la volontà vuole, la memoria saldamente conserva»[16]. Circa il ristare dell’intenzione, o il soffermarsi sull’idea: «Il mio desiderio di oggi è il mio scopo di domani, è l’idea di ciò che è mantenuto desto (sthita) dal mio effettivo pensarlo (vibhavayati), così come è detto: «Si compiono le opere di Dio»[17]. Circa l’opera, leggiamo: «Opera e divenire sono tutt’uno. Quando il costruttore si arresta, anche la casa cessa di farsi. Se fermi la scure, arresti la crescita»[18]. «L’uomo ha bisogno di molti strumenti per compiere le sue opere esterne; ed è necessaria una grande preparazione per realizzarle al modo in cui le ha immaginate»[19]; la mente che investiga «può spendere un anno o forse più in ricerche su fenomeni della natura, per scoprire ciò che è, ma le occorre altrettanto tempo per scoprire ciò che non è»[20]; invece «alle crea

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