Interviews, Italy, Roma, 21 December 2007
FABRIZIO BORELLI: TRACKS & CHIPS
L’ARTE TRA REGIA E FOTOGRAFIA
Articolo di Marco Ancora del 22 dicembre 2008-12-22
D) Mi racconti gli inizi?
R) Ho iniziato a interessarmi di fotografia a 17 anni. Corteggiavo una ragazza bellissima e non trovai nulla di meglio che acquistare una Nikkormat di terza mano per fotografarla, al solo scopo di conquistarla. E fu mia. Conservo ancora quelle bellissime foto e la vecchia Nikkormat. Era il tempo di quelli della Nikon F e quelli della Pentax Spotmatic, di quelli della Ilford Hp4 e quelli della Kodak Trix. I tempi della grana grossa, delle pellicole rapide tirate a 1.600 ASA, dell’ingranditore nel bagno di casa e del 50mm di Cartier Bresson. Una volta iscritto alla Facoltà di Architettura iniziai a lavorare come stampatore in una piccola agenzia di Roma, per guadagnare qualche soldo. Grandi i collaboratori. In particolare ricordo i ritratti penetranti di Sandro Becchetti e gli scatti duri e inesorabili di Tano D’Amico. Due maestri. Lì mi innamorai della camera oscura. Uno dei luoghi a me più cari, ancora oggi. Un grembo di penombra rossastra, dove per un procedimento chimico tanto semplice e antico da sembrare magico-alchemico, le immagini si formano sul nulla-bianco di un foglio di carta. Da allora mi è rimasto l’amore per il “procedimento”. Per anni ho avuto uno studio al Borghetto Flaminio a Roma, dove la ripresa e la stampa in b/n divennero un culto, una sfida, una mania. Ho fotografato di tutto, le lotte e il teatro degli anni ‘70 a Roma, il Portogallo della rivoluzione dei Garofani nel ‘74, la Spagna post Franco nel ‘75, i concerti di piazza, gli amici musicisti, pack-shot di fascia medio-bassa, attori e attrici qualsiasi, artisti, ex-malati di mente… Conservo pochissimo di quel periodo, gran parte dell’archivio è andata distrutta.
D) La fotografia alla base, e da qui il viaggio nell’arte..
R) Nei primi anni ottanta, assieme ad un amico, costruii un congegno per la retroproiezione. Avevo acquistato una Fatif 10x12, già vecchia appena comprata. Volevo fare un lavoro su Shangai, le baracche a Isola Sacra, luogo di villeggiatura dei poveracci romani vicino al Vecchio Faro di Fiumicino, dove ammazzarono Pier Paolo Pasolini. Feci delle riprese in b/n e a colori, intervenni sulle stampe con l’aerografo e poi, in grande formato, fotografai e ri-fotografai le basi, con esposizioni multiple, per sostituire o modificare alcune parti delle immagini originarie. Una sorta di proto-photoshop. Ancora la passione per il “procedimento”. Nacquero così i MINDSCAPES, che divennero una personale-lampo a Milano, e le MAGIC WINDOWS. Erano già nati gli ORDINARY PEOPLE, ritratti drammatico-iconici di gente comune, in b/n. Qualcuno se ne è salvato.
D) Mi parli della regia?
R) Nel 1977 avevo iniziato a lavorare nel cinema come assistente operatore. Nel 1980 vinsi il concorso al Centro Sperimentale di Cinematografia e lasciai l’Università. Ho fatto prevalentemente il cinema popolare e il cinema trash, fino a quando non incontrai Ermanno Olmi, nel 1983. Un’esperienza ricca, nella direzione di fotografia e nella regia, ma ambigua. Tanto che la sua conclusione, un film sulle ricadute affettive del terrorismo in una famiglia degli anni ’70, L’ATTESA, da me scritto e diretto, costituì per me l’abbandono del lavoro nel cinematografo e la migrazione nella Televisione, per meri motivi di sopravvivenza. Di questo periodo mi resta dentro la percezione profonda della luce, la suggestione delle strutture del racconto. Era il 1990. Nel 1996 due mostre, una collettiva: CIAO DARIO, in ricordo di Dario Bellezza, e una personale: ARCHIVI DISTRATTI, dove ho costruito il primo incontro tra immagine e parola. La mostra era accompagnata da una “colonna sonora”, un testo di suoni e parole che due amici musicisti mi aiutarono a realizzare. Avevamo “mescolato” dei versi di Mario Luzi, letti da mia figlia che allora aveva sette anni e da sua madre, con alcuni suoni campionati. Le immagini erano selezionate secondo un criterio di memoria emotiva. Non so se fossero le più le più belle del mio archivio, per me erano le più vitali. ARCHIVI DISTRATTI ha significato disconoscere la fotografia come professione, una professione che non ero riuscito a organizzare, e ricondurla al primitivo intreccio tra tecnologia, immaginazione, emozioni, affetti, stupori. Un fenomenale moltiplicatore di percezione, senso e memoria. A sottolineare quella negazione quasi tutte le immagini della mostra erano ricavate da scatti realizzati con apparecchi amatoriali “usa e getta”.
D) Per te il racconto ha quasi una funzione liberatoria, quasi un’autoanalisi. E il tuo percorso vitale sembra coincidere in pieno tanto con quello artistico quanto con quello lavorativo. Qual’è stato il passaggio della maturità?
R) Il 1997, la fine dei giochi. Lascio lo studio al Borghetto, passo per uno studiolo alla Garbatella che chiudo dopo pochi mesi. Da qui inizia la lunga apnea che mi ha condotto a tracks&chips mentre la televisione pervadeva la mia vita. È stata un’esperienza interessante, non solo per i prodotti realizzati, di volta in volta ottimi, buoni, mediocri o insufficienti, ma per il metodo/non-metodo di lavoro e le abilità che esso sviluppa. Una in particolare credo abbia a che fare con tracks&chips : la capacità/necessità che talvolta c’è nel lavoro televisivo di mettere insieme cose diverse e apparentemente incompatibili, in modo superficiale, spregiudicato, talvolta arbitrario e trarne un prodotto invece omogeneo e con un senso ben definito. È come se l’oggetto televisore fosse capace, in sé, di dare un senso o almeno una coerenza, alle cose che “contiene”. Il computer è divenuto lo strumento con il quale ho dato coerenza a materiali di origine diversa.
D) ..E arrivi a tracks & chips…
R) tracks&chips ha origine da un incidente autobiografico. Tre anni fa venne diagnosticata a mia figlia, la minore, una grave scoliosi. L’immagine della sua schiena ritorta colpì la mia coscienza di padre e la mia immaginazione. Quella figura sarebbe stata l’inizio di un lungo percorso tra ospedali, busti ortopedici e sale operatorie, ma fu anche un momento di stupore estetico, l’incanto di fronte alla natura maligna che obbliga un corpo a torcersi senza ragioni apparenti e traccia in esso un segno affascinante perché evoca, trasmette, trasuda una forza misterica, primitiva, più forte di tutto, la forza di un’anima inquieta. Ed è stato l’inizio di una osservazione “insolita” di materiali che da anni mi passavano davanti agli occhi: le immagini diagnostiche. Per via del mio mestiere di regista ho curato e curo, tra gli altri, programmi televisivi sulla salute. Le immagini diagnostiche sono immagini che ritraggono il nostro corpo da “punti di vista” e con strumenti poco consueti. Indagano, spiano dentro, vanno nel profondo della materia di cui siamo fatti e per questo sono prossime all’anima. Esse rappresentano forme e strutture che, a mio modo di vedere, fanno parte della nostra memoria profonda di esseri umani. Icone della nostra fisicità. Segni certi dell’essere o dell’essere stati in vita. Attraverso l’elaborazione digitale ho cercato di rendere evidente, “trasmissibile” la mia intuizione. Ho trasformato queste “figure” snaturandone l’originario e consueto b/n/grigio con l’immissione violenta di colori esasperati, digitali. Andando avanti il computer contenitore/elaboratore ha ospitato immagini di altra origine sulle quali ho applicato il “procedimento”. Prima ancora di tracks&chips avevo preso a scattare, con il telefono cellulare, immagini che rimandano alla foto-dinamica di Bragaglia o ad alcuni effetti che si possono ottenere, nella ripresa televisiva, modificando la velocità dell’otturatore. Più che una ricerca vera e propria era l’agire una vecchia abitudine. Mi è sempre piaciuto giocare con le scie, con i movimenti frammentati. Così sono nati il ciclo CRASH e un ciclo che ho solo “proposto” nel catalogo della mostra e a cui sto lavorando, è l’ultima immagine pubblicata: UNDONE. Poi ci sono le immagini “rubate” dai siti pornografici. Di quelle vorrei, in futuro, realizzare una mostra monotematica. Privilegio la pornografia all’erotismo e tutto sommato questa mi pare una distinzione un po’ ipocrita. Nella schiavitù volontaria di chi agisce la pornografia c’è qualcosa di tragico e provocatorio. È il superamento sfrontato e beffardo di un limite, che per altri resta solo una fantasia rinnegata. Le immagini pornografiche sono una rappresentazione, violenta ma chiara, di sogni proibiti e condivisi, icone di una probabile “condizione umana”. Ci sono infine altre “basi” alle quali sto lavorando.
Il “procedimento” che ho applicato è una ricerca per me del tutto nuova, sull’opponenza cromatica delle tinte base e sul contrasto simultaneo. Usare i colori digitali generati dal computer è stata una vera e propria avventura. Sono colori inesistenti al di fuori dello schermo, tanto che talvolta immagino, come possibile allestimento, una istallazione di monitor nei quali far vivere le immagini. Ma non ho grande confidenza con questo tipo di messe in scena. Prediligo ancora l’opera singola, il pezzo. In questo senso, mio malgrado, sono un conservatore. Dovrò trovare la chiave per forzare questo conformismo.
Il “piano di lavoro” si è andato definendo man mano che il lavoro progrediva. Una alterazione graduale delle “basi” originarie attraverso l’immissione del colore e della parola tracciata sul foglio elettronico, la parola senso, segno, onomatopea. Parola fantasma. Parola voce. Drenaggio di memoria emotiva. Nessuna pretesa di poesia. E poi segni di altra origine, tracce filiformi, orme, segni, sgarri e scarabocchi. Non tutto ha un senso oltre quello di un gesto alle volte compulsivo.
Il risultato è ciò che si vede.
D) Come artista e come professionista del multimediale, un tuo pensiero sullo stato dell’arte contemporanea
R) Quanto alla stato generale dell’arte contemporanea non ho strumenti per entrare nel merito. Sono un “consumatore” di arte, di letteratura di poesia. Non uno studioso. Quello che posso dire è che percepisco un certo fermento di idee, progetti, linguaggi. Entusiasmi non sempre profondi ma pur sempre entusiasmi. Ma queste energie mi sembrano, nella maggioranza dei casi, come bloccate da una strana razza di conformismo. Una specie di dovere del successo. Poi percepisco un’altra curiosa contraddizione. Nell’universo globalizzato tra settori, gruppi, persone, esiste una impermeabilità che impedisce uno scambio sostanziale di idee. Come se vi fosse una eccessiva frammentazione in gruppi, riserve di caccia, tribù. È una energia che non circola o che fluisce solo laddove venga indirizzata e allora mi pare che perda forza.
FB
http://www.agoramagazine.it/agora/spip.php?article5417

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