LA CRITICA
La pittura di Enzo Cumani non è affatto, come qualche osservatore superficiale potrebbe credere, un esempio di chiarezza e di evidenza figurativa. Certo, nei suoi quadri tutto sembra immediatamente riconoscibile, tutto è sicuro e a portata di mano, tenuto entro un rigoroso e quasi ferreo disegno compositivo, modellato con forza da un colore che non conosce violenze timbriche e gestuali, che nasconde anzi i propri spessori matrici e le tracce del ductus, immedesimandosi a tal punto nelle cose rappresentate da diventarne, si direbbe, la pelle e la carne. Eppure in questi quadri sono disseminati indizi inquietanti e segnali che incrociano direzioni diverse e suggeriscono tortuosi percorsi mentali. Uno di questi percorsi, su cui ci sentiamo sospinti ogni volta che vediamo un dipinto di Cumani, conduce verso una regione della nostra memoria, tra Mantova e Ferrara. E innanzitutto un pensiero abbastanza insistente a Mantenga e ai pittori ferraresi del Quattrocento, con la percezione di una fermezza di profili e il sentimento di una natura splendida e pietrificata, in cui si mescolano gli umori di un enigmatico classicismo archeologico. E’ anche il ricordo, apparentemente divagante, se non proprio inopportuno e fastidioso come certe associazioni mentali di cui noi stessi stentiamo a comprenderne il senso, di quella prima scena teatrale prospettica, di cui parlano le cronache del tempo, realizzata da Pellegrino da Udine nei primi anni del Cinquecento, proprio a Ferrara. Ma che c’entrino il teatro e la prospettiva rinascimentale, come possa riaffiorare una notizia letta chissà quando e dove, non è poi impossibile da capire. I dipinti del nostro artista propongono quasi sempre, con una perentorietà che può apparire persino provocatoria e che certamente è tutt’altro che ingenua, un’idea rinascimentale dello spazio, con una prospettiva decisamente unitaria e centralizzata. E non è un caso che, tra l’altro, Cumani abbia dipinto una variazione sul “Cristo morto” di Mantenga. Ma vi sono non poche ragioni, come vedremo tra poco, per sostenere che in realtà il riferimento non è tanto alla rappresentazione pittorica di uno spazio di natura fermamente imbrigliato nelle maglie della prospettiva, quando ha uno spazio artificiale”, e più esattamente a uno spazio teatrale, riordinato, come è stato effettivamente a partire dagli inizi del Cinquecento, entro i fasci della piramide ottica che parte dall’occhio dello spettatore. Se è così, come co pare indubitabile, ecco spiegato il perché dell’associazione, provocata dai dipinti di Cumani, tra la pittura ferrarese e il ricordo di quel primato “teatrale” della città, emiliana. Ma ora siamo in debito di un’altra spiegazione, che riguarda un punto centrale nell’opera del nostro artista. Accennavamo prima agli indizi e ai segnali disseminati nelle immagini di Cumani. Essi stabiliscono un gioco sottilissimo tra l’artista e lo spettatore, nel quale il primo tende mille trappole di seduzione per desiderio del secondo: la bellezza dei paesaggi e dei templi classici presentati nella immobile luce del mito mediterraneo, la vitalità fremente dei cavalli e dei cani, la grazia insidiosa dei felini, la confortante plasticità degli oggetti, la corposa e quasi tangibile familiarità di un limone, di un uovo o di uno scatolo...Ma, quando stiamo per abbandonarci al piacere dell’illusione pittorica, ecco che l’artista ci fa intravedere il meccanismo della trappola. Cumani ha allestito uno spettacolo e la superficie del quadro è stato il suo cantiere teatrale, il suo palcoscenico: c’è il mare con le sue onde spumeggianti, l’isola fascinosa e il cielo spruzzato di nuvolette. Ma non è difficile accorgersi che i prati dell’isola sono ritagli di stoffa verde poggiati su una struttura sottostante, che il mare può essere un fondale dipinto, come il cielo azzurrissimo, su cui le nuvolette somigliano un po’ troppo a batuffoli gommosi o addirittura a uno stampino o a una lastra di metallo sbalzata. Il tempio, poi, non è forse che una facciata vuota o i ruderi delle colonne sono sagome ritagliate nel cartone. Allora comprendi pure quali sono i motivi del disagio che prima cercavi di mettere da parte. Ci sono, infatti, molte cose che contraddicono le leggi della natura: la nuvola è scesa troppo in basso sotto la linea dell’orizzonte, le piante, le uova, i pomi spesso sono sospesi nell’aria come se volassero. Per non dire del brusco sdrucciolo dei piani d’appoggio, del terreno, dell’erba e del mare che s’impennano verso il cielo.
VITALIANO CORBI
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