Il rischio più grande è altrove
Exhibitions, Italy, Treviso, 06 April 2013
L’io trasfigurato/trasposto tra super-uomini e fumetti
Prefazione di Diego Mantoan

Sarà forse un po’ banale, ma – da appassionato lettore di fumetti quale mi pregio di essere – il lemma “altrove” mi ricorda immediatamente un certo “Altrove”. Quasi un riflesso condizionato, l’associazione mentale corre alle strisce bonelliane con cui sono cresciute generazioni di ragazzi, nello specifico a Martin Mystere, alias il detective dell’impossibile (o dell’improbabile...chissà). “Altrove” è un luogo sconosciuto, perlomeno lo è la sua esatta indicazione geografica, tanto che l’eroe vi giunge sempre ignorando la via d’accesso, spesso in stato d’incoscienza. Questo “Altrove” non è altro che la mitica base segreta nella quale un ordine poliziesco - una sorta di Men in Black - custodisce tutto ciò che l’uomo non può comprendere. O meglio, tutto ciò che si ritiene l’umanità non debba sapere per non sconvolgere le fondamenta su cui basa la propria esistenza sociale e spirituale.
Celare allo sguardo della collettività quanto non può essere afferrato sembra la costante degli ultimi due secoli di storia occidentale, perlomeno dalla nascita della società industriale di matrice borghese. Nella sua breve vita, Michel Foucault ha dedicato molte ricerche al rapporto con la diversità in Età Moderna, in particolare riferita al concetto di devianza sociale. Il compianto storico e sociologo francese ha così dimostrato come fuoriusciti, eretici, ritardati, deformi abbiano da sempre costituito un’umanità altra, la quale rappresentava un problema da affrontare. La conformazione territoriale e politica dell’Europa uscita dal periodo medievale permetteva ancora di bandire dalla società i diversi, espellendoli fisicamente dal perimetro cittadino, ovviamente dopo averli puniti sulla pubblica piazza senza lesinare in truculenza. Il bando, tuttavia, rappresentava solo l’extrema ratio per i recidivi o gli incurabili, poiché già il rito di espiazione in sé poteva essere sufficiente a far accettare il diverso all’interno della società. Punizioni plateali ed esecuzioni pubbliche servivano dunque a stigmatizzare la diversità, in quanto opposta alla normalità e – proprio per questo – necessaria alla sua stessa validazione. L’alterità trovava cioè una ragion d’essere che le permetteva di venire comunque accolta in seno alla società.
Al termine del Settecento, l’affermazione di grandi Stati nazionali, il primo progresso industriale e in parte lo spirito positivistico coincisero con un radicale mutamento di atteggiamento nei confronti della diversità. Il nuovo ordine morale non tollerava più la vista del diverso, il quale andava represso o nascosto, così da ripristinare la decenza sociale. Nascono così innovativi sistemi per rispondere alle esigenze di una società borghese preoccupata dei pericoli che la minacciano dal proprio interno: le forze di polizia ordinaria, le moderne carceri, i sanatori mentali. Forse sono proprio gli eccessi della nobiltà libertina e irriverente del tardo Settecento, narrati splendidamente da Lorenzo Da Ponte nella trilogia mozartiana, a scatenare la ripresa morale della borghesia europea, giunta
L’io trasfigurato/trasposto tra super-uomini e fumetti
Prefazione di Diego Mantoan
progressivamente al potere durante il secolo successivo. Autentico faro dell’era industriale pare quello di voler imbrigliare l’individuo nella rete concettuale di una normalità che è innanzitutto morale, rivolta in maniera spasmodica al controllo degli usi e costumi, specie sessuali. La decenza sociale passa così per la repressione incondizionata degli istinti, attraverso cui raggiungere la coercizione della bestialità nell’uomo. Le derive di un simile pensiero non tarderanno a venire, sfociando dopo meno di un secolo nella diffusione delle teorie lombrosiane sulla fisiognomica per l’individuazione dell’uomo criminale, oppure nella nascita della psicanalisi freudiana per curare la psiche ormai devastata.
In questo percorso, che vede l’uomo strappato dal suo contesto naturale, ciò che si perde per strada è innanzitutto la sua individualità. Lo spirito, incapace di reggere a una simile violenza, si trova artificiosamente diviso in due parti: il suo aspetto socialmente accettabile da un lato, quello della bestialità più becera dall’altro. La schizofrenia dilaga nella società, o perlomeno la si diagnostica, tanto da costituire la spina dorsale del pensiero filosofico ottocentesco, nonché della creazione artistica e letteraria del secolo. La diffusione delle teorie psicanalitiche, a partire dalla classica tripartizione freudiana della coscienza, e la suggestione del pensiero nietzschano, dall’antitesi Apollineo/Dionisiaca alla teorizzazione del Super-Uomo, rappresentano più il sintomo che la causa di una società profondamente malata. Una società afflitta da un morbo che si annida nell’individuo e si estrinseca soprattutto nella produzione culturale di fine Ottocento. Specie la letteratura anglosassone, la prima a scontrarsi con gli effetti dell’industrializzazione, risente di questo iato nello spirito umano. Inutile ricordare capolavori come The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1886) dello scozzese Robert Louis Stevenson, o il meno noto The Private Memoirs and Confessions of a Justified Sinner (1824) del conterraneo James Hogg.
Soprattutto, sarà l’artista a farsi carico di quella malattia sociale che crede l’altro o l’altrove annidato nelle viscere dell’individuo. Anziché estirparlo, come vorrebbe la morale borghese, o riconciliarlo, come prevede la prassi psicanalitica, l’individuo artistico intende sfruttare il proprio lato oscuro. L’inconscio rappresenta in definitiva l’autentica vena creativa a cui dare fondo per produrre arte. I modi per entrare in contatto con la propria alterità o per giungere altrove sono assai disparati. Fra tutti prevale il tentativo di produrre arte in stato di ebbrezza ed esemplari in proposito sono le poesie di Rainer Maria Rilke. Come mai prima d’allora, l’arte diventa espressione profonda della natura umana e dello sconvolgimento individuale.
L’attività degli artisti occidentali, specie dopo gli orrori delle due guerre mondiali, è ancora impegnata a ricucire i pezzi dell’individuo andato in frantumi. Il dilagare di travestitismi e pseudonimi in rete registrano ancora oggi la necessità nella società occidentale di dare sfogo alla ricerca di sé. Non stupisce quindi che undici giovani emergenti abbiano sentito il dovere di incentrare il proprio lavoro sull’individuo, ossia l’enigma mai risolto dalla nostra cultura. Senza porsi limitazioni di sorta, né morali né mediatiche, hanno deciso di esplorare l’alterità dell’individuo o il luogo geografico della sua diversità: quell’altrove sconosciuto, nel quale è rischioso avventurarsi, ma necessario per la comprensione di sé stessi. Spaziando fra tutti i media disponibili – dalla pittura alla fotografia, dal video alla performance – questa decina di giovani artisti presenta la propria ricerca sull’individuo, trasfigurato in qualcos’altro o trasposto in un altro luogo, intesa come progressiva scoperta dell’io.

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