Lo schieramento legittimista, detto patriottico, ha una forte base popolare, per ragioni ideologi-che e religiose, essendo ostile ai francesi, portatori degli ideali laici della rivoluzione del 1789; inol-tre può contare sull'appoggio di eminenti intellettuali e politici, come Jovellanos, che, pur non es-sendo tradizionalisti, credono che la costituzione della Spagna non debba nascere a tavolino, ma debba fondarsi sull'esperienza storica del Paese e sul recupero di antiche istituzioni civili che limiti-no il potere monarchico. Invece i sostenitori di Bonaparte, prevalentemente borghesi, detti afrance-sados, difendono la costituzione di Bayona. Di fatto la situazione è caotica. La parte, diciamo così, reazionaria, ha come sua arma principale una straordinaria guerriglia popolare, spontaneista e, per certi versi, persino democratica; la parte, diciamo così, progressista, fa solenni gesti simbolici e di-chiarazioni di principio, come proclamare la libertà di stampa e abolire l'inquisizione, senza che nel paese reale cambi alcunché. Viene proclamata una nuova costituzione (1812), curiosamente chiama-ta La Pepa, in quanto promulgata dalle Cortes il giorno di san Giuseppe: è la prima costituzione promulgata in Spagna, poiché la precedente si considera imposta da Napoleone. Vi si stabilisce il suffragio universale e il carattere costituzionale della monarchia. Resta in vigore due anni. Infatti, complice anche l'intervento inglese, Fernando riesce a riprendersi il trono, restaurando l'assolutismo, con l'appoggio dell'esercito, che fa il primo intervento politico, o pronunciamiento, della storia spa-gnola moderna.
Il periodo che segue è torbido: da un lato una politica del pugno di ferro, portata avanti dal go-verno; dall'altro, stante anche il permanere di una crisi economica di vaste proporzioni, uno stato di guerriglia continua fuori dalle città, alimentata da contrabbandieri e contadini affamati. L'inquisi-zione viene di nuovo legalizzata e, per giunta, si dà vita a una polizia segreta. I gruppi liberali rima-sti, quasi tutti in clandestinità, non sanno organizzare cospirazioni efficaci. Tuttavia nel 1820 il pro-nunciamiento di un ufficiale liberale, Rafael del Riego, appoggiato da vari gruppi di insorti, obbliga Fernando a ristabilire la costituzione del 1812. Con questo atto ha inizio il cosiddetto triennio libe-rale, al termine del quale Fernando VII riesce a recuperare il potere e inizia una fase di governo e-stremamente repressivo, che dura un decennio: è la cosiddetta década ominosa (1823-1833). Nel frattempo, a seguito dei nuovi equilibri mondiali sanciti dalla dottrina Monroe del 18232, l’impero che la Spagna possedeva oltre l’Atlantico scema progressivamente, con la conseguente perdita di prestigio internazionale: la Spagna diventa una piccola e marginale potenza europea.
A seguito della sua politica non certo popolare, Fernando perde anche l'appoggio di una parte dei settori realisti, e questo si rivela della massima importanza nello scoppio della questione dinastica legata alla sua successione. In base alle leggi vigenti, l'erede al trono di Fernando è suo fratello Car-los María Isidro. Ma nel 1829 la regina María Amalia muore, e Fernando si sposa in seconde nozze con María Cristina di Borbone, da cui ha due figlie, Isabel e Luisa Fernanda. La successione era re-golata dalla legge salica promulgata nel 1713, che escludeva le donne dal trono. Questa legge era stata revocata dalla costituzione del 1812, e rimessa in vigore successivamente: in realtà era diventa-
2 Con lo slogan "America agli americani", la dottrina Monroe sancisce l'appoggio degli Stati Uniti ai processi di decolonizzazione dell'America Latina e avvia di fatto il controllo politico ed economico sta-tunitense sul continente.
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ta il tema di uno scontro politico, stante anche il fatto che Fernando si era riavvicinato alla Francia, mentre il fratello Carlos manteneva una posizione antirivoluzionaria. Alla fine l'abolizione della legge salica avviene su pressione di Fernando, che vuole spianare la strada al trono per Isabel, ma viene seguita una procedura formalmente illegale: la riforma costituzionale è dunque priva di legit-timità.
Alla morte di Fernando sua figlia Isabel viene proclamata erede al trono, con la reggenza della madre María Cristina, e subito i carlisti, i sostenitori di Carlos, erede sulla base della legge salica, contestano la legittimità della successione e passano all'opposizione armata, dichiarando la prima delle guerre carliste (1833-1840).
Questo conflitto, che in pratica attraversa tutto il secolo, ha radici molto complesse. Da un lato vi è un'evidente contrapposizione ideologica: c'è uno schieramento liberale contro lo schieramento tra-dizionalista del carlismo. Ma dall'altro lato c'è la complessità del tradizionalismo rurale spagnolo, che include tra i suoi principali valori la difesa del sistema tradizionale di autonomie, una politica anti-centralista e un'acuta attenzione al problema sociale, soprattutto riguardo alle campagne: con i carlisti erano schierati i piccoli proprietari terrieri, i mezzadri, i braccianti, gli operai urbani, il clero rurale (l'alto clero era a favore del governo) e la bassa nobiltà, soprattutto nei Paesi Baschi3.
La guerra provoca una serie di sconvolgimenti politici nel governo e nel 1840 la reggente María Cristina va in esilio. Segue un triennio di reggenza di Baldomero Espartero, durante il quale avven-gono novità importanti, come la nascita di un movimento repubblicano, la formazione di associa-zioni operaie di mutuo soccorso e l'insurrezione repubblicana di Barcellona (1842), città che viene bombardata. Espartero viene sostituito dal generale Ramón María de Narváez, con cui inizia il co-siddetto decennio moderato. Isabel viene proclamata, con anticipo, regina (Isabel II) e si riprende il tentativo di centralizzare lo stato spagnolo. Si forma un nuovo blocco sociale tra nobiltà, borghesia e chiesa. Non cessano tuttavia i disordini interni e le lotte, ormai di chiaro segno ideologico, tra pro-gressisti e conservatori.
Nel 1868 la Spagna è in preda alla rivoluzione. La rivoluzione liberale del 1868 mette fine al re-gno di Isabel, proclama il suffragio universale e promulga una costituzione che garantisce molti di-ritti individuali, aprendo la strada alla diffusione di partiti socialisti e anarchici. Sul trono viene chiamato Amedeo di Savoia, mentre riprendono le ostilità dei carlisti. Amedeo, però, rinuncia al trono, e si ha un'effimera fase repubblicana (prima repubblica), cancellata da un intervento dell'eser-cito, un vero e proprio golpe che restaura la monarchia (Alfonso XII) e cerca di recuperare un mi-nimo di ordine. Il governo, guidato ora da Antonio Cánovas del Castillo, cerca di realizzare un libe-ralismo minimo, compatibile con lo stato del paese, confermando le libertà di espressione, di asso-ciazione e di stampa. Però le questioni fondamentali restano irrisolte. Nel 1897 Cánovas viene as-sassinato e l'anno dopo, il 1898, un lungo contenzioso con Cuba, che aspirava alla sua autonomia, viene risolto con l'intervento della marina statunitense e l'ignominiosa sconfitta della flotta spagno-la: è ciò che passerà alla storia come il desastre, la perdita degli ultimi possedimenti spagnoli oltre-mare.
3 Cfr. Gianni Ferracuti, Tradizione, destra, sinistra: il caso del carlismo spagnolo. “Letterature di Frontiera/Littératures Frontalières”, Quaderni del Dipartimento di Lingue e Letterature dei Paesi del Me-diterraneo, Università di Trieste. n. 3, 2001, 89-102.
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Dall'inizio del secolo alla guerra civile
Il forte sviluppo industriale e la crescita delle masse operaie determinano un crescente confronto ideologico tra i partiti di ispirazione liberale e quelli di ispirazione socialista. La prima guerra mon-diale, però, cambia notevolmente la situazione europea: le distruzioni e le crisi provocate dalla guer-ra, il passaggio della supremazia politica agli Stati Uniti, la rivoluzione russa del 1917, aprono cer-tamente una nuova fase nella storia mondiale. Negli Anni Venti la crescita degli investimenti neces-sari per la ricostruzione genera un clima di euforia, gli happy twenties, che non ha alcuna influenza sui conflitti sociali, che anzi si radicalizzano. A partire dalla III internazionale del 1919 si radicaliz-za la scissione tra socialisti e comunisti (il Partido Comunista de España nasce nel 1921), i quali ul-timi troveranno di lì a poco una guida nell'unione Sovietica di Stalin; in Italia Mussolini prende il potere nel 1922, e le strutture della democrazia liberale si indeboliscono quasi ovunque; la grande crisi della borsa di New York del 1929 produce una grave recessione e milioni di disoccupati: il si-stema capitalista è in una profonda crisi. I conflitti sociali esplodono. Da un lato le forze della sini-stra tradizionale vanno all'attacco del sistema (il Fronte Popolare vince le elezioni in Francia nel 1936); dall'altro il mondo borghese subisce un attacco da destra, da forze nazionaliste (Hitler prende il potere in Germania nel 1933). Vero è anche che una parte della borghesia europea vede nei partiti nazionalisti un male minore rispetto al comunismo, o utilizza i movimenti di estrema destra come argine contro comunisti e socialisti. Questi conflitti, accanto alle questioni lasciate irrisolte dalla prima guerra mondiale, sfociano nella seconda guerra mondiale, che produce decine di milioni di morti.
La Spagna resta neutrale nella prima guerra mondiale, ma non riesce a trarre benefici durevoli da questa situazione; anzi si assiste a una crescita dell'instabilità sociale e, dopo la guerra, a una gene-rale crisi economica, che suscita malcontento e agitazioni nelle classi deboli della società. Come se non bastasse, una spedizione militare spagnola in Marocco si rivela disastrosa (1921). Per cercare di uscire dalla crisi, la monarchia si affida al generale Primo de Rivera, che governa dal 1923 al 1930. La sua dittatura (in realtà piuttosto blanda, se paragonata al fascismo e al nazismo) non consegue importanti risultati, soprattutto sul piano interno, dove si limita a garantire un certo ordine pubblico, senza alcuna capacità di progettazione politica, e si conclude con le dimissioni. Nel 1931 l'opposi-zione di ispirazione repubblicana ottiene un vero trionfo elettorale, e il re rinuncia al trono. Il 14 a-prile del 1931 viene proclamata la repubblica (seconda repubblica), che gode del sostegno delle classi medie e delle masse operaie, unite contro l'oligarchia della vecchia Spagna.
La repubblica non ha vita facile. Si impegna in un profondo programma di riforma della Spagna, ma è ostacolata dalla difficoltà di mettere d'accordo la borghesia e le masse popolari che non accet-tano di essere escluse dalla costruzione del nuovo assetto istituzionale. Tuttavia la fase repubblica-na, che era iniziata in modo legale con una vittoria elettorale, viene fatta cessare illegalmente con il colpo di stato del 18 luglio del 1936, che scatena la guerra civile durata fino al 1939. La vittoria del-le forze reazionarie apre l'epoca di Franco (1939-1975), la cui pesante dittatura vedrà qualche timida apertura solo negli Anni Cinquanta. Negli Anni Sessanta, anche per gestire una crescente opposi-zione sia interna che internazionale, il regime avvia una politica di sviluppo industriale che compor-ta l'avvio di un percorso di europeizzazione della Spagna. Alla morte di Franco la società spagnola è molto più integrata con l'Europa di quanto non lo fossero le strutture del regime, e realizza in pochi anni una stupefacente e rapidissima transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia.
Questa integrazione politica e sociale con l'Europa aveva avuto un precedente (e forse una delle sue cause) nell'integrazione culturale dei primi decenni del Novecento, subito dopo il periodo mo-
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dernista. Da un certo punto di vista il modernismo rappresenta l'inizio di un processo che, pur aven-do varie fasi e venendo identificato con varie etichette, resta sostanzialmente unitario. La critica ha individuato tre nuclei di questo processo, indicandoli con i nomi di Novecentismo, Vanguardia e Generación del 27: si tratta certamente di fenomeni che compaiono in successione, ma, dato il ri-stretto numero di anni in cui operano, in larga misura si sovrappongono e si influenzano a vicenda, risultando quasi come prospettive complementari. Bisogna anche tenere presente che nel periodo che va dal 1898 al 1936 sono ancora attivi, e rappresentano importanti punti di riferimento, autori della generazione precedente come Unamuno, Machado o Valle-Inclán. Pertanto, nel definire sche-maticamente le caratteristiche di ogni prospettiva, bisogna tenere presente che ciascuna di esse inte-ragisce con le altre e non occupa mai totalmente il primo piano della scena letteraria, artistica e filo-sofica spagnola. Per esempio, il maggior esponente del novecentismo, Ortega y Gasset, è in costante dialogo, anche polemico, con Unamuno ed è, al tempo stesso, il miglior teorizzatore dell'estetica delle avanguardie.
La prospettiva postmoderna
a. Kierkegaard e l'esistenzialismo
Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855), il cui pensiero costituisce una delle più importanti fonti di ispirazione di Miguel de Unamuno, firma molte opere con pseudonimi, creando una sorta di tea-tro delle maschere, attraverso il quale distanzia da sé i personaggi, cioè le prospettive interpretative di volta in volta adottate, con le quali non si identifica mai totalmente. L'importante non è ciò che si comunica, ma la determinazione del punto di vista dal quale ciò che si comunica acquista un senso e una corretta interpretazione.
Vi sono tre grandi prospettive interpretative ed esistenziali: estetica, etica, religiosa. Aut-aut (En-ten-Eller, 1843) definisce l'alternativa tra le prime due possibilità. Esteta è colui che vive la vita come godimento e rappresentazione del godimento, vita come gioco, immaginazione e teatro: don Giovanni, Faust, Johannes del Diario del seduttore (Forfoererens Dagbog, parte di Enten-Eller). Estetica è spontaneità, è ciò per cui l'uomo è immediatamente ciò che è. Etica, invece, è imposizione alla spontaneità di un progetto, a seguito del quale si è ciò che si è scelto di diventare. Data la man-canza di una autoimposizione, l'esteta può essere tutto, ma non è mai niente di definito: da qui una costante dimensione di disperazione. Si può reagire alla disperazione continuando nella distrazione del gioco estetico, e allora si smarrisce la propria autenticità, oppure la si può accettare, scegliendola con decisione e in modo pieno: in tal caso si è già entro i confini dell'etica, dato che la caratteristica dell'etica è appunto la scelta.
Compiere una scelta, al di là del valore relativo della scelta stessa, buona o cattiva, significa af-fermarsi come persona, operare come se stessi, essere qualcuno. Ogni scelta è etica (estetica signifi-ca non scegliere), e impone l'accettazione di una cosa e il rifiuto di un'altra cosa: aut aut. Questo at-to di preferenza fonda la personalità: è un'esperienza della libertà e, insieme, un rivelarsi a se stessi e al mondo. Tuttavia scegliere non significa automaticamente fare la scelta giusta; l'esperienza inse-gna anzi che normalmente l'uomo non riesce a tener fede ai suoi ideali. Nell'ottica cristiana di Kier-kegaard, inoltre, il comportamento etico si infrange contro il peccato, da cui l'uomo è inevitabilmen-te gravato. Dunque la vera scelta etica deve passare attraverso il pentimento, da intendersi come ri-
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conoscimento e accettazione della propria peccaminosità, e come conseguente amore verso Dio. La sfera etica ha un limite oltre il quale si trova la sfera religiosa.
La dimensione del peccato, originale nell'uomo, è il fondamento dell'angoscia, costitutiva dell'e-sistenza (Il concetto dell'angoscia, Om Begrebet Angest, 1844)). L'angoscia è inerente alla libertà, al poter fare una certa cosa o la contraria - vertigine del potere e della libertà, della possibilità di essere diverso: né l'angelo né l'animale provano angoscia, perché non possono andare contro la propria na-tura, non possono che essere se stessi. L'uomo invece può trasgredire il comandamento divino ed essere diverso. Con il peccato prende coscienza di sé come essere libero, e l'angoscia si configura come possibilità di scelta tra bene e male.
Per il singolo, il compito etico consiste nell'esprimere se stesso privandosi della singolarità e a-deguandosi alla generalità della norma etica. Però questa etica generale, che proprio per essere etica si propone all'individuo nella forma dell'imposizione, non è necessariamente superiore all'individuo. Certamente, la vita etica è diversa da quella estetica, tutta giocata sull'accettazione del momento. "Vederla e amarla fu una cosa sola", dice Don Giovanni, significando che tra il movimento sponta-neo del desiderio e la soddisfazione del desiderio non si frappone alcuna norma, alcun ostacolo vo-luto, alcun principio in nome del quale quel godimento andrebbe respinto o posposto. Nondimeno, vivere secondo una norma generale, generalizzarsi, rendersi anonimo, non rappresenta un'istanza, un modello superiore a quello di una robusta personalità. Esiste la possibilità di andare contro il com-portamento generale, ed è esemplificata da Abramo. Abramo riceve l'ordine da Dio di uccidere suo figlio, ed è deciso a compiere questo ordine, infrangendo l'etica generale del suo popolo che proibi-sce l'omicidio. Dunque, dal punto di vista etico, il suo gesto è una trasgressione; ma Abramo obbe-disce a un'istanza superiore, religiosa, e mette la voce di Dio, che parla a lui singolarmente, al di so-pra della morale generale.
Le scelte e la responsabilità sono inerenti alla vita e, in un certo modo, sono la vita stessa. Que-sta vita non può essere studiata e definita in termini astratti: la realtà della vita non può essere dedot-ta dal pensiero, al contrario, è il presupposto stesso del pensare. Inoltre, la vita è individuale, esiste nel concreto e non in astratto. Se si cerca una verità, questa non la si può trovare in frasi generali va-lide sempre e comunque, ma in un'accettazione sincera della propria soggettività, in una comunica-zione che si è appropriata di una interiorità. In altre parole, la presa d'atto della propria interiorità, la sua accettazione, l'adozione di comportamenti coerenti, la sua comunicazione attraverso la propria vita sono la verità. Questa sincerità di vita ( = appropriazione della propria interiorità) rappresenta un salto dalla vita quotidiana dominata dal peccato e dalla non-verità alla trascendenza e all'alterità di Dio, che si manifesta proprio nell'interiorità della persona, nella sua libertà di scelta e di poter es-sere, come autenticità. L'uomo è libero, ma solo nella scelta e nell'accettazione della fede è anche autentico4.
b. Nietzsche
La riflessione sulla vita è al centro dell'opera di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900). Il continuo divenire, le trasformazioni della vita distruggono ciò che essa stessa crea; nulla vi è in essa
4 Aut-aut è pubblicato in italiano da Adelphi, Milano 1976-1989, in cinque volumi, nella traduzione di Alessandro Cortese. Timore e tremore è stato tradotto da Franco Fortini per Comunità, Milano 1948. Il concetto dell'angoscia, tr. Michele Federico Sciacca, Bocca, Milano 1941.
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di permanente, e questo significa che include un momento di dolore e di irrazionalità. La vita non è razionale e non può essere racchiusa in concetti immobili e sempre identici a se stessi, che non sono adatti a spiegarla. Tuttavia, il carattere transitorio e non permanente della vita non deve spingere a fuggirla: va intanto accettato come dato di realtà. Il primo risultato di questa accettazione è la diffi-denza verso ogni raffigurazione della vita che non tenga conto della sua mutevolezza, della sua irra-zionalità e del dolore che inevitabilmente le si lega. Ne deriva la messa in discussione di ogni sapere basato su sistemi chiusi e presuntivamente definitivi: si veda la critica di Nietzsche all'immagine della Grecia classica presente in ogni forma di classicismo. (Nascita della tragedia dallo spirito del-la musica5).
Incomprensibile alla ragione, la vita può essere spiegata dall'arte, come già sosteneva il romanti-cismo, perché l'arte riesce ad andare oltre le apparenze e a raggiungere l'essenza del mondo. Per questa spiegazione estetica della vita Nietzsche privilegia la tragedia. La tragedia è per lui la mas-sima espressione artistica del mondo greco, e l'estetica su cui si basa è stata formulata dai greci non attraverso concetti, ma attraverso le figure mitiche di Apollo e Dioniso, personificazioni di due ele-menti, l'apollineo e il dionisiaco, che sono alla base della vita stessa. Apollo rappresenta la tendenza alla misura, alla forma, alla perfezione, alla chiarezza luminosa e solare; Dioniso è la raffigurazione della notte, dell'ebbrezza, del caos, dell'eccesso, di tutto ciò che va fuori misura.
Apollineo e dionisiaco vanno intesi in modo dinamico: non sono concetti, ma tendenze compre-senti; la vita non si dà mai senza l'una o senza l'altra, anche se uno dei due aspetti può a tratti domi-nare sull'altro, relegandolo ai margini. Queste tendenze sono la tensione di fondo su cui poggia la vita in generale, e a maggior ragione la vita individuale: agiscono all'interno di ogni persona. L'apol-lineo è tutto ciò che spinge a dare alla vita una forma armonica, ordinata, mentre dionisiaco è l'abis-so della condizione umana senza forma né definizione. È apollineo un certo distacco, mentre è dio-nisiaco il dolore mescolato alla gioia, il superamento delle barriere e la forza generatrice che si af-ferma al di là della morte.
Alla luce di questa concezione, Nietzsche svaluta il cammino culturale dell'Occidente, progres-sivamente sempre più dominato dalla ragione e dalla razionalizzazione della vita, e pone un conflit-to, tuttora perdurante, tra la concezione tragica e la teoretica. Più affine ad Eraclito che a Parmenide, Nietzsche vede nella vita il primato del divenire sull'essere. Come dice Eraclito, "il tempo è un fan-ciullo che gioca a dadi con l'universo". Di fronte a ciò, ogni sistema concettuale è una delle infinite interpretazioni prodotte dalla mente umana, dotata al massimo di un valore provvisorio; in nessun caso un qualunque sistema concettuale rappresenta l'essenza dell'universo. Da qui un atteggiamento prospettivista: se il positivismo afferma di basarsi sui fatti, Nietzsche replica che non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Ogni affermazione non può essere considerata in assoluto vera o falsa, ma solo prospettica, cioè relativa a un punto di osservazione, a un momento del tempo e alle capacità dell'osservatore. Cambiando queste condizioni, l'affermazione che sembrava vera può non sembrar-lo più. Tuttavia è impossibile un'osservazione della realtà che non sia prospettica; dunque, non esi-ste alcuna conoscenza fuori della pluralità dei punti di vista. Il punto di vista, a sua volta, nasce da una valutazione: ha valore ciò che è considerato utile per la vita. A partire da ciò che consideriamo utile per la vita, organizziamo i dati conosciuti in una struttura, in una gerarchia di importanze, e co-struiamo l'immagine prospettica del mondo.
5 In Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 1999, 17-165 (Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, 1872)
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Questa concezione è antitetica a quella razionalista nella quale il soggetto, attraverso la coscien-za e la razionalità, arriverebbe a conclusioni oggettivamente valide sulla realtà. Per Nietzsche il soggetto è, a sua volta, una realtà complessa e conflittuale al suo interno, e non può conoscere senza al tempo stesso interpretare.
A partire da Umano, troppo umano (Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Gei-ster,18786), Nietzsche abbandona il punto di vista estetico e tragico, e comincia a mettere in que-stione il valore della stessa arte: le contesta ora una rappresentazione arbitraria del mondo, una raf-figurazione puramente mitica (nel che forse non è da vedere un difetto, ma una nota positiva). Il po-sto dell'arte viene occupato da un sapere totalmente critico, tutto teso ad individuare gli errori delle nostre rappresentazioni. Una volta chiarita la distanza tra la realtà stessa e le rappresentazioni, risul-ta evidente che tali rappresentazioni, oltre ad avere un margine di inadeguatezza, possono contenere elementi non presenti nella realtà, ma che sono il retaggio, come pregiudizio, di interpretazioni e credenze passate e condizionano l'osservazione. Uno di questi elementi, su cui si concentra la critica di Nietzsche è l'idea della trascendenza.
Una cattiva filosofia ha duplicato il mondo teorizzando la separazione tra i fenomeni (ovvero ciò che appare ai nostri sensi) e, dietro ad essi, le cose in sé. Per Nietzsche postulare una cosa in sé die-tro le apparenze è un errore della ragione. Ogni ipotesi metafisica è un inganno "troppo umano" che serve a rendere sopportabile il carattere transitorio della vita: è una mera consolazione. Ne deriva una critica alle grandi costruzioni teoriche che rappresenta, al tempo stesso, un'analisi spietata della modernità ottocentesca. Le morali, e in particolare la morale borghese, sono solo finzioni con cui si è cercato di dare apparenza di nobiltà a funzioni intrinseche alla vita, come l'istinto di sopravvivenza o la ricerca del piacere.
Questa critica ha un primo momento negativo: la svalutazione degli ideali della società del tem-po. Poi ha un complementare momento positivo, in quanto per Nietzsche il riconoscimento della falsità delle morali e delle raffigurazioni della trascendenza apre spazi nuovi. Ad esempio, il distac-co dalle vecchie morali produce lo spirito libero, il quale coglie la grandezza dell'esistenza nella ca-pacità umana di costruire grandi progetti: per lo spirito libero, non avere legami con le false idee del passato significa trovarsi all'inizio di un'epoca nuova. È un nuovo giorno, una "filosofia del matti-no" in cui, senza avere le idee del passato come riferimento, la vita viene vissuta come esperimento, accettazione dell'incertezza, danza dionisiaca e gioco. L'immagine letteraria, più che concettuale, secondo cui Dio è morto - e siamo stati noi ad ucciderlo - (Gaia scienza, Die Fröhliche Wissen-schaft, 18827), descrive la condizione esistenziale in cui nessuna metafisica viene più riconosciuta come valida e, al tempo stesso, non si vuole una metafisica nuova che sostituisca le vecchie, svol-gendo ancora un ruolo consolatorio. Le regole di comportamento adottate dalla civiltà occidentale, soprattutto sulla scorta del cristianesimo, poggiavano sul nulla. Nel momento in cui sono smasche-rate, la concezione di Dio che esse sottintendevano si rivela una menzogna. Nulla di tutto ciò che si credeva prima ha ancora senso: questa è l'essenza del nichilismo come caratteristica dell'epoca. Se vediamo questo nichilismo nel suo aspetto di crisi dei valori (precedenti), mettiamo in primo piano una perdita: viene a mancare il senso della vita. Se però vediamo il nichilismo come la grande rive-lazione che smaschera una menzogna durata secoli, allora possiamo assumerlo attivamente, lavo-rando per un mondo nuovo. Ma questo compito, almeno inizialmente, non può che essere svolto da
6 Nel vol. IV, tomi II e III delle Opere complete di F. Nietzsche pubblicate nei Classici Adelphi.
7 F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1988.
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una minoranza che riesca a sopportare il peso di un'esistenza priva del sostegno rassicurante delle vecchie certezze. D'altronde, se queste certezze (false) non fossero entrate in crisi, non si sarebbe potuto superarle.
Il superamento, grande tema di Così parlò Zarathustra (Also Sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, 1883-18858), sta nell'annuncio del superuomo - parola entrata nell'uso, ma frutto di una cattiva traduzione: Nietzsche intende parlare di un al di là dell'umano e, verosimilmente, un al di là dell'umano quale lo ha definito nelle opere precedenti. Il superamento dell'umano di cui parla Nietzsche non ha nulla a che fare con una sorta di evoluzionismo, men che meno con interpretazioni razziste, con cui si è cercato di utilizzare il suo pensiero durante in nazismo, senza averlo capito. Il superamento dell'umano si capisce se chiariamo che significa "umano". Umano è, in Nietzsche, an-zitutto un atteggiamento debole, quasi direi spaventato di fronte alla vita, che cerca di proteggersi imbrigliando la vita stessa, la vita reale, in una struttura che la stabilizzi, eliminandone per quanto possibile la creatività, e chiudendola in una gabbia concettuale che le dia quel senso (consolatorio) che essa non ha. Il superamento dell'umano sta nell'affermazione forte e gioiosa della vita, di tutta la via, anche dei suoi aspetti dolorosi, compiuta da uno spirito forte e libero, al tempo stesso fiducioso e pessimista, perché ha accettato le contraddizioni della vita stessa.
Rispetto al sistema di valori definito dalle vecchie morali, questo nuovo tipo umano può sembra-re negativo, avere i tratti dell'avventuriero o dell'individuo sprezzante, indifferente di fronte al bene e al male. In realtà è indifferente a quel bene e a quel male definito dalle vecchie morali. Di fronte ad esse il superuomo (per continuare ad usare questa brutta espressione) è senza morale. Ciò non significa che potrebbe, indifferentemente, spacciare droga, violentare una monaca o rapire i bambini per venderne gli organi. Dalla morte di Dio (o venir meno della credenza nell'immagine di Dio ere-ditata dal passato) la prima conseguenza è che "ora tutto è possibile" (lo era già prima, anche se a-veva la condanna di una morale falsa); la seconda conseguenza è: ora bisogna dare la prova di una natura nobile (ovvero: non faccio il bene perché una morale me lo impone o perché ho paura di an-dare all'inferno, ma perché prendo possesso della mia natura nobile e sono fedele a me stesso); la terza conseguenza è: se è crollata la morale oggettiva, allora sono io a decidere, sotto la mia respon-sabilità, che cosa è bene e che cosa è male.
La responsabilità verso se stessi è l'elemento caratteristico del superuomo. Nietzsche non crede che il tempo abbia una fine, che il mondo abbia uno scopo, o segua un piano provvidenziale. Il reale esiste eternamente, si muove eternamente (e questo conduce Nietzsche alla folgorazione dell'eterno ritorno, che non possiamo affrontare in questa sede) e l'unica cosa che realmente c'è qui ed ora è l'at-timo. L'attimo presente, pur nella sua fuggevolezza, è la totalità della nostra vita ora. Se nelle vec-chie metafisiche ogni istante del tempo aveva il suo significato in relazione agli altri, nella visione di Nietzsche ogni istante del tempo ha significato in quanto è un "mio" istante, un istante della mia vita, e io posso determinare come viverlo. Da qui la massima che esso debba essere vissuto piena-mente, cioè affidato alla mia volontà e al mio coraggio.
Avere una personalità non significa limitarsi a crederlo, ma comportarsi in un certo modo: sono le mie scelte a decidere se ho un animo nobile. Nel momento in cui, presupposta la libertà dalle vec-chie metafisiche, le mie scelte rivelano un comportamento nobile, queste scelte dànno, o possono dare, una forma al mondo, alla vita sociale, allo stato. Questa forma non deriva da una teoria, da una
8 id., Così parlò Zarathustra, un libro per tutti e per nessuno, trad. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1993. Cfr. anche Mazzino Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, Adelphi, Milano 1999.
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morale decisa da altri, ma dipende solo da me, dalla mia scelta, dalla mia volontà: è il senso ultimo della "volontà di potenza", espressione più volte fraintesa, ma che rappresenta la controparte positi-va di tutta la demolitrice critica nietzscheana. La vita umana può progettare, non è vincolata a com-portamenti determinati dal meccanismo dell'istinto. Può progettare liberamente un certo tipo di esi-stenza, e può impegnarsi liberamente a realizzarlo. La volontà di potenza è l'invenzione di forme nuove di esistenza svincolate dalle vecchie metafisiche e dall'atteggiamento passivo che esse aveva-no imposto all'umanità. Essa definisce una gerarchia: è la qualità per cui un individuo si distacca dalla massa amorfa e afferma se stesso o un nuovo senso della vita.
Ciò che Nietzsche pone a base della sua filosofia è una vera e propria metamorfosi attraverso la quale l'uomo occidentale si libera di una cultura che si è imposta alla vita, imprigionandola e falsifi-candola, e rimette la vita stessa (che è la sua vita, la vita che vive anche lui) in primo piano: non una realtà imprigionata da una verità che trovi il suo fondamento al di là del mondo, ma una realtà che è accettata come unica, come nostra, e da cui si debbono trarre progetti di forme e affermazioni di va-lore.
Nietzsche realizza una vera tabula rasa di tutti i pregiudizi ereditati, esaltando la vita nella sua fattualità, coi suoi attimi fuggenti e i suoi enigmi, i momenti di esaltazione e di dolore, e tutta la gamma dei suoi contenuti positivi o negativi: è un invito ad osservarla con un occhio perennemente vergine e disposto allo stupore. Con la sua opera si può considerare chiusa la fase filosofica "mo-derna" e aperta, al tempo stesso, una fase nuova, post-moderna o, con un aggettivo più appropriato, contemporanea. Ciò che Fichte aveva rappresentato per il romanticismo è il pensiero di Nietzsche per il secolo dell'arte nuova.
c. La rivoluzione scientifica
L'uomo antico viveva in un universo di cui sapeva fornire un'immagine, una raffigurazione men-tale. Che si trattasse delle sfere celesti o della meccanica di Newton, o della raffigurazione dell'ato-mo in forma di sistema solare in miniatura, con oggetti che hanno la loro orbita attorno a un nucleo, l'universo antico era traducibile in un'immagine, e quest'immagine, a sua volta, era divulgabile. Og-gi non è più così: almeno al momento, la fantasia non è stata capace di darci una rappresentazione dell'universo quale lo concepiscono i fisici, che lo esprimono con formule matematiche. Nella se-conda metà dell'Ottocento, l'orizzonte ultimo in cui l'uomo include la sua vita viene stravolto. Scienze rimaste immutabili per secoli entrano in crisi: la matematica, la geometria, la logica, la fisi-ca, la medicina... Nella maggior parte dei casi la comprensione delle nuove scienze è preclusa a chi non ne sia uno specialista, anche se le applicazioni che ne derivano hanno cambiato la nostra vita quotidiana. Tutti i giorni usiamo il computer senza conoscere minimamente la logica booleana, che è alla base dei programmi che lo fanno funzionare, o dominiamo una forza naturale di straordinaria potenza, come l'elettricità, senza conoscerne nulla. Computer ed elettricità sono solo due campi tra i tanti in cui una rivoluzione del sapere senza precedenti nella storia ha cambiato la quotidianità, pro-ducendo possibilità di vita mai immaginate nemmeno dal più fantasioso utopista del passato. In al-cuni casi, invece, il dibattito nelle scienze ha coinvolto anche filosofi e intellettuali non specialisti: il grande pubblico ha sentito parlare della teoria della relatività o del principio di indeterminazione, e spesso ne ha tratto interpretazioni fantasiose e arbitrarie.
La discussione non scientifica su certe nuove teorie scientifiche è avvenuta perché esse metteva-no in crisi alcune convinzioni millenarie, ritenute certissime. Facendo solo un rapido elenco, si vede come la teoria della relatività di Einstein (1905) abbandona, nella descrizione dei fenomeni fisici, i
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concetti di spazio assoluto e tempo assoluto, facendo crollare la concezione newtoniana dell'univer-so come una grande macchina. La meccanica quantista, elaborata da vari studiosi tra il 1924 e il 1927, nega la sostanziale continuità dei processi naturali, affermata già nell'antichità, mette in crisi il determinismo, affermato già da Aristotele, e si spinge ad affermare il carattere statistico di certe sue previsioni. Heisenberg formula poi il principio di indeterminazione, stabilendo che non è possibile misurare al tempo stesso la posizione e la velocità di un elettrone con precisione assoluta. Inoltre gli studi sulla luce e poi sull'elettrone hanno messo in evidenza che questi fenomeni possono essere studiati a volte come onde, a volte come corpuscoli, pur essendo evidente che un'onda è una cosa diversa da un corpuscolo: con ciò ci si allontana dal senso comune, rendendo impossibile l'immagi-nazione dell'atomo come una struttura di pallini ben ordinata da movimenti meccanici.
Cosa ancor più grave, si è messo in discussione il valore di ogni teoria, sia scientifica sia filoso-fica: la possibilità di studiare un fenomeno con due sistemi teorici diversi, a seconda dei casi, turba il filosofo occidentale, che vi vede la fine di un modo plurimillenario di concepire il suo lavoro. Ad entrare in crisi è tutto l'assetto del sapere ottocentesco: il razionalismo, il positivismo, o sorta di san-ta alleanza tra filosofia e scienza, la fiducia stessa in una visione del mondo con un alto gradi di cer-tezza. Singolarmente, quella specie di piazza pulita che Nietzsche auspicava nella cultura occidenta-le, viene svolta proprio dalla scienza, in forza dei suoi stessi principi, nello stesso momento in cui essa fornisce gli strumenti pratici per uno straordinario ampliamento delle possibilità di vita e per-mette a un numero enorme di persone di godere di condizioni di esistenza molto superiori a quelle delle classi dominanti nelle epoche passate9.
Ciò che appare caratteristico della trasformazione avviata nella seconda metà dell'Ottocento è la critica, in ogni campo, delle idee generali, delle leggi generali, valide sempre e comunque. Nello studio della società Émile Durkheim (1855-1917) scopre che il fatto sociale è una tendenza, una fe-de che coinvolge un gruppo sociale e si impone all'individuo dall'esterno: è il modo in cui un gruppo rappresenta se stesso come collettività dotata di valori e punti di vista comuni10. Questa rappresenta-zione cambia a seconda dei popoli e delle epoche, e quindi cade l'ipotesi che si possa conoscere "la" società in termini generali e sempre applicabili. Max Weber (1864-1920) afferma che, dopo la di-struzione dei valori tradizionali realizzata dalla modernità borghese, la scienza non ha la possibilità di intervenire restaurando, per così dire, il valore assoluto dei valori, e dunque l'uomo si trova, nella società occidentale, a vivere con una pluralità di sistemi di valori, tutti ugualmente fondati o infon-dati11. In campo antropologico viene meno l'idea che esista una sorta di linea ideale del progresso umano, in base alla quale ogni cultura avrebbe prima o poi raggiunto il livello di vita più avanzato,
9 Sulla rivoluzione scientifica contemporanea cfr. Xavier Zubiri, La idea de naturaleza: la nueva físi-ca, in Naturaleza, Historia, Dios, Alianza, Madrid 1987, 291-353 (trad. italiana a cura di G. Ferracuti, Natura, Storia, Dio, Augustinus, Palermo 1985).
10 Opere di Durkheim presenti in edizione digitale sul Bolero di Ravel: Cours de philosophie; Les formes élémentaires de la vie religieuse; Cours sur les origines de la vie religieuse; Coutumes sexuelles dans la mythologie gréco-romaine; De la division du travail social; Droit matrimonial juif; Débat sur le fondement religieux ou laïque à donner à la morale; La Sociologie et son domaine scientifique; Le Con-trat social de Rousseau; Le problème religieux et la dualité de la nature humaine; Le socialisme; Leçons de sociologie; Origine de l'État et de la famille à Rome; Pragmatisme et sociologie; Rites nuptiaux au Moyen Age; Une révision de l'idée socialiste: www.ilbolerodiravel.org/biblioteca/dd/durkheim.zip.
11 Cfr. Max Weber, L'éthique protestante et l'esprit du capitalisme; Les sectes protestantes et l'esprit du capitalisme in www.ilbolerodiravel.org/biblioteca/xwyz/weber.zip.
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cioè quello occidentale (era il cosiddetto darwinismo sociale). Gli studi di Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) erano ancora legati a una netta distinzione tra mentalità primitiva e mentalità moder-na12, ma a partire da Franz Boas (1854-1942) si comincia a studiare le varie culture non più secondo un modello evolutivo, ma secondo un modello comparativo13. Si individua un lasso di tempo e uno spazio geografico in cui è attestata una cultura omogenea, e si compara il suo insieme con quello di altre culture. Questo obbliga a un'osservazione sul campo dei fenomeni culturali, da cui risulta la complessità anche delle culture a prima vista più semplici. Appare dunque impossibile concepire le singole culture come fasi di un processo unitario e unidirezionale. La riflessione sulla pluralità delle culture va poi a includere la critica del cosiddetto eurocentrismo (il Tramonto dell'Occidente di Spengler14): al contatto con culture molto complesse e antiche anche la fiducia nella superiorità dell'uomo occidentale viene messa in crisi. Abbandonata la fede assoluta nella ragione come stru-mento di conoscenza, e considerato che un primato tecnologico, evidentemente innegabile, non comporta necessariamente un primato morale, religioso o culturale, l'uomo occidentale di media in-telligenza si ritrova di fronte a grandi tradizioni, come quella indiana, cinese o islamica, che non possono essere considerate inferiori. Con ogni evidenza, si impone un dialogo interculturale, e non è più possibile trovare nella carta geografica una zona in cui scrivere "hic sunt leones".
Come la sociologia e l'antropologia, anche la psicologia si struttura come disciplina autonoma e dà il suo contributo alla caduta delle antiche certezze. Già Wilhelm Dilthey (1833-1911) aveva sen-tito la necessità di separare le scienze dello spirito dalle scienze empiriche, studiate secondo metodi matematico-sperimentali15. Mentre le scienze naturali hanno per oggetto dati estranei alla coscienza dello scienziato, le scienze dello spirito, ad esempio quelle storico-sociali, hanno per oggetto dati che esprimono la personalità e la psicologia umane. Questi dati sono omogenei alla coscienza dell'osservatore, e per questo risultano comprensibili. La natura si spiega attraverso le leggi scoperte con un procedimento intellettuale; invece i fenomeni psichici, storici e sociali si comprendono an-che grazie alla sostanziale affinità tra tali fenomeni e chi li osserva. Dilthey sostiene che la psicolo-gia è una scienza dello spirito, e che su di essa si deve fondare una antropologia filosofica, intesa come studio della connessione tra la psiche umana e il mondo storico in cui tale psiche si manifesta mediante comportamenti, creazione di sistemi culturali, di istituzioni e di vita sociale.
Per Dilthey ogni esperienza, ogni "vissuto" (Erlebnis) è connesso alla totalità della psiche della persona e a tutti gli altri vissuti da essa sperimentati. Nella struttura della psiche esistono il senti-mento, l'intelletto e la volontà; poi, la vita e le esperienze aggiungono abitudini irriflesse, schemi di pensiero, idee recepite dalla società o inculcate dall'educazione. Tutto ciò influenza l'individuo, che deve rendersi conto della connessione tra questi dati e la struttura della psiche (sentimento, intellet-to, volontà), per poter agire liberamente e svilupparsi. Lo sviluppo fa parte della psiche, ed è l'aspi-razione verso qualcosa, è l'inclinazione o tendenza a ciò che oggi si chiama comunemente autorea-
12 Cfr. Lucien Lévy-Bruhl, L'âme primitive; Carnets; La mentalité primitive; La mythologie primi-tive; Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive; L'expérie nce mystique et les symboles chez les primitives, in www.ilbolerodiravel.org/biblioteca/kl/levyBruhl.zip.
13 Franz Boas, The mind of primitive man (1911), disponibile in edizione digitale all'indirizzo: http://ia331332.us.archive.org/3/items/mindofprimitivem031738mbp/mindofprimitivem031738mbp.pdf.
14 Osvald Spengler, Der Untergang des Abendlandes (1918-1922), trad. italiana di Julius Evola: Il tramonto dell'occidente, Longanesi, Milano 1957.
15 Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito (Einleitung in die Geisteswissenschaften, 1883, testo tedesco a fronte), trad. Gian Antonio De Toni, Bompiani, Milano 2007.
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lizzazione. Queste dimensioni della psiche sono connesse con il mondo storico-sociale. L'insieme costituito dalla connessione della psiche con la storia e la cultura di ciascun popolo è, per Dilthey, la vita: conoscere un fatto significa collocarlo dentro la totalità della vita, attraverso la descrizione e la comprensione. Si vive, si comprende, si esprime, o meglio: ci si esprime attraverso atti e comporta-menti. I tre momenti del comprendere, vivere e esprimere sono il circolo ermeneutico: quando stu-dio un fatto, ho già una precomprensione, cioè dei pregiudizi, che mi orientano nell'interpretazione; lo studio serve a far emergere il pregiudizio, ma fa anche capire che non è possibile abbandonarlo del tutto; dunque il pregiudizio orienta l'interpretazione, e questa manifesta il pregiudizio. Questo carattere circolare della conoscenza mi permette di interpretare il dato e, al tempo stesso, di cono-scere me stesso nella misura in cui divento consapevole dei miei pregiudizi.
L'impostazione data da Dilthey alle scienze dello spirito e alla psicologia è molto innovativa, nonostante la presenza di elementi di chiara derivazione romantica. Solo nel primo Novecento il contributo di Dilthey sarebbe stato adeguatamente valutato da pensatori come Heidegger o Ortega y Gasset. Nel suo tempo, invece, la psicologia cercò di fondarsi come disciplina autonoma strutturan-dosi secondo il modello delle scienze della natura. Ad esempio Wilhelm Wundt (1832-1920) tentò di associare la tradizionale introspezione psicologica con metodi sperimentali e strumenti matemati-ci con cui venivano indagate le costanti del comportamento e della psiche rilevabili all'osservazio-ne16. Questa impostazione presentava però molti problemi, la cui analisi ha condotto progressiva-mente alla costituzione di diverse scuole psicologiche. Tuttavia, il grande dibattito sulla fondazione della psicologia costituisce il terreno su cui Sigmund Freud (1856-1939) costruisce il grande edifi-cio della psicanalisi, ovvero della psicologia del profondo: la scienza che fa emergere gli strati della psiche esclusi dalla coscienza, inconsci, e tuttavia operanti al punto da condizionare il comporta-mento individuale.
Il metodo classico attraverso cui l'analisi freudiana riesce a far emergere i dati dell'inconscio è la libera associazione di idee, ed ha una fortuna enorme nella letteratura e nell'arte: basti pensare che senza la psicanalisi non ci sarebbe stato il surrealismo.
Nel 1900 Freud pubblica L'interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung), sostenendo, contro la scienza del suo tempo, che l'attività onirica non è dovuta solo a cause neurofisiologiche, ma a cause psichiche: il sogno ha un significato e può essere interpretato17. La psiche che si esprime nel sogno non è soltanto quella parte cosciente che conosciamo nella vita di veglia, ma è la totalità del sentire psichico, coscienza e inconscio. Il sogno ha un contenuto manifesto, benché spesso totalmente irra-zionale e incomprensibile; però, una volta svegli, attraverso libere associazioni il paziente può abbi-nare un'immagine onirica a un'altra immagine, giungendo così al contenuto latente del sogno, cioè al suo significato. In una condizione di rilassamento, il paziente lascia fluire ricordi, fantasie e imma-gini, che costituiscono il materiale dell'analisi. Il paziente cerca di dare un'interpretazione, una strut-tura a tale materiale e, se esso si lega a traumi che sono all'origine del comportamento nevrotico, mostra una certa resistenza ad accettare tale collegamento; questa resistenza, a sua volta, è la strada che consente al terapeuta di arrivare alla causa originaria.
16 Wilhelm Wundt, Opere scelte, Utet, Torino 2009. Convenzionalmente, la moderna psicologia si fa iniziare con la nascita del primo laboratorio di Wundt, a Lipsia nel 1879.
17 Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni, traduzione di Elvio Fachinelli, Herma Trettl, Bollati Boringhieri, Milano 1985.
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Un altro punto delle teorie freudiane destinato ad avere una vastissima eco fuori dall'ambiente specialistico degli analisti è la teoria della sessualità. Sostanzialmente, fino a Freud la sessualità era stata tematizzata in due modi: dal punto di vista scientifico la si collegava alla riproduzione; dal punto di vista morale, soprattutto nella tradizione cattolica, la si considerava peccaminosa fuori dal matrimonio. Fortunatamente, le genti di ogni tempo, a dimostrazione che conta più la pratica che la grammatica, hanno ostinatamente continuato a cercare una sana attività sessuale, ma è solo con la psicanalisi che la sessualità viene riconosciuta come dimensione centrale - forse non la più impor-tante in assoluto, ma certamente centrale e determinante - dell'esistenza umana. Senza una vita ses-suale sana non c'è salute psichica, e là dove si manifestano nevrosi e isterie c'è normalmente un trauma che ha alterato lo sviluppo sessuale: Freud ritiene che ciò avvenga in età infantile e che la coscienza "rimuova" il trauma cessando di riconoscerlo e di ricordarlo; esso tuttavia permane nell'inconscio che lo rivela attraverso il sogno.
Oggi molte teorie di Freud sono state corrette, alcune sono state confermate nell'essenziale, altre ancora sono state abbandonate; è però certo che senza la psicanalisi non sarebbe stato possibile im-maginare una vita libera dalle nevrosi, né si sarebbero potute aprire molte prospettive interpretative nuove che stanno cambiando il nostro modo di intendere la personalità, la società, la storia. La psi-canalisi non ha solo iniziato una complessa indagine sulla psiche umana, ma ha anche avviato la comprensione delle radici psicologiche di comportamenti da sempre ritenuti naturali nell'uomo: la guerra, la prevaricazione, l'imposizione di una "normalità" ovvero di un comportamento massificato e conformista che si presume normale, l'assetto istituzionale di società repressive che producono il disagio sociale e la devianza, e via dicendo. Ma accanto a questi aspetti eclatanti, e spesso discussi, del movimento psicanalitico bisogna porre alcune questioni, forse più tecniche e difficili, ma non meno importanti e ricche di conseguenze. Con Freud, che pure segue una via diversa da quella trac-ciata da Dilthey, viene definitivamente superato quel dualismo tra mente e corpo, che aveva preso vigore in epoca moderna, soprattutto con Cartesio, e che aveva impedito di fatto il riconoscimento dell'unita della persona umana. La psicanalisi riunisce la dimensione del fisico e dello psichico e, correttamente intesa, a mio modo di vedere, non nega l'esistenza della terza dimensione spirituale; questa anzi si impone all'attenzione delle scuole di analisi o delle teorie psicologiche subito dopo Freud.
d. Le radici dell'esistenzialismo
D'altro canto, la riunificazione della persona umana, il superamento della frattura moderna, car-tesiana, è un altro dei temi che più caratterizzano l'epoca che inizia verso la metà dell'Ottocento.
Cartesio aveva messo la coscienza a fondamento della conoscenza. La coscienza, cioè l'io, è il soggetto pensante. Ovviamente, l'io pensa il mondo, ma noi non possiamo garantire la certezza delle sue rappresentazioni, non possiamo essere sicuri che una certa idea del mondo sia vera. Abbiamo la necessità di un criterio di certezza. Com'è noto, Cartesio cerca di trovare il criterio di certezza, cioè, si badi, il principio in sé vero della conoscenza, attraverso una strada che, in verità, non era stato lui ad inventare: il dubbio sistematico: se dubito di tutto, alla fine vediamo se c'è qualcosa di cui non posso dubitare, neanche per amor di tesi. Orbene, dice Cartesio, quando dubito di tutto, c'è effetti-vamente una cosa di cui non posso dubitare, ed è proprio il fatto che sto dubitando. Dubitare è un'at-tività mentale, e qualunque cosa io pensi, debbo ammettere come dato certo il fatto che sto pensan-do. Se penso, evidentemente esisto: cogito, ergo sum. Ecco il principio certo della conoscenza: pos-so garantire la mia esistenza in quanto essa è fondata sull'impossibilità di negare che sto pensando.
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Bene. Ora bisogna chiedersi: che cosa sono io che, in quanto penso, esisto? Qui Cartesio è straordi-nario e dice: sono una cosa che pensa, una res cogitans. Certamente, io sono molto di più, ma que-sto è noto all'esperienza fallace, non al rigore del ragionamento. Il ragionamento, formalmente fon-dato e ineccepibile, mi dice che cogito, ergo sum, sum res cogitans. Qualunque altra caratteristica deve essere indagata e fondata da questo principio.
Per la verità, sul rigore di questo ragionamento nella storia della filosofia si sono accumulate le battute più salaci: da quella di chi fa notare che, a rigor di logica, dal cogito non deriva affatto che sum, che sono io, ma che cogitatio est, cioè che esiste il pensiero, a quella di chi fa notare che l'inte-ro ragionamento di Cartesio, anche preso per buono, non esclude affatto che io possa essere il per-sonaggio del sogno di un cane. Di fatto, però, l'epoca moderna mette la coscienza al centro della sua riflessione e solo il sostanziale fiasco teoretico della filosofia idealista consentirà di riaprire la di-scussione. La svolta, se mi è consentita una semplificazione brutale, prende le mosse da una consta-tazione piuttosto semplice: in fondo, se Cartesio può fare tutti i ragionamenti che fa, è perché Carte-sio è un essere vivente in carne e ossa, cioè perché il pensare presuppone la realtà, e non il contrario. Che il ragionamento di Cartesio sia giusto o sbagliato è cosa ininfluente di fronte al fatto enorme che questo ragionamento è... di Cartesio, cioè può esistere perché prima del ragionamento esiste nientemeno che Cartesio. Allora, forse, guardare come è fatto Cartesio procura qualche informazio-ne sulla realtà. Detto in parole meno povere: si comincia a sentire l'esigenza di ripartire da un'osser-vazione del reale. E siccome ormai sappiamo che l'interpretazione della realtà è condizionata da pregiudizi e precomprensioni, si cercherà di prestare la massima attenzione al reale stesso, cercando, nei limiti del possibile, di tacitare ogni idea o interpretazione previa.
Schematizzando la narrazione, questo atteggiamento porta a tre grandi tematiche, ciascuna delle quali non esclude necessariamente le altre. Anzitutto il carattere intrinsecamente dinamico e mobile della realtà: il divenire non è qualcosa che capita accidentalmente a una realtà sottostante e immobi-le, ma è la realtà stessa nella sua più intima struttura. In secondo luogo, l'ascolto delle cose e la de-scrizione rigorosa di come esse appaiono alla coscienza: è la fenomenologia di Husserl, con i suoi immediati sviluppi verso un nuovo realismo, con Ortega e Zubiri, o verso una nuova filosofia dell'e-sistenza, a partire da Heidegger. In terzo luogo, la sostituzione della nozione di persona al concetto di individuo.
Henri Bergson (1859-1941), attraverso la teoria dello slancio vitale, afferma l'esistenza di una creatività intrinseca nella natura, che non può esplicarsi con assoluta libertà, ma deve combattere con la resistenza della materialità18. Edmund Husserl (1859-1938)19, nella parte della sua opera pubblicata in vita (molto più vasta è l'opera rimasta inedita e pubblicata dopo la morte) ha elaborato un metodo descrittivo della realtà che ha influenzato moltissimo la cultura contemporanea: la feno-menologia. Husserl accetta l'idea che qualunque nostra percezione di realtà è in fondo un'immagine
18 Di Bergson cfr: Les deux sources de la morale et de la religion; Essai sur les données immédiates de la conscience; L'évolution créatrice; Le rire. Essai sur la signification du comique; La philosophie française, in www.ilbolerodiravel.org/biblioteca/bb/bergson.zip.
19 Edmund Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, 1913, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di Enrico Filippini, tr. Giulio Alliney, Einaudi, Torino 2002, 2 voll. Cfr. anche: id., Ricerche logiche, a cura di Giovanni Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, 2 voll. Cfr. anche Xavier Zubiri, Cinco lecciones de filosofía, Alianza, Ma-drid 1985, part. 205-276 (trad. italiana a cura di G. Ferracuti, Cinque lezioni di filosofia: Aristotele, Kant, Comte, Bergson, Husserl, Dilthey, Heidegger, Augustinus, Palermo 1992).
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mentale: quando io affermo di avere di fronte un albero, albero è primariamente l'immagine che il mio cervello costruisce a partire dai dati forniti dai sensi. Potrebbe essere un'allucinazione: bene, che lo sia o non lo sia, non ha importanza, mettiamo tra parentesi la questione e analizziamo l'im-magine mentale, descrivendola così come essa si presenta. Non potremo dire che è reale, cioè che l'albero esiste indipendentemente dal mio vederlo, ma possiamo dire che, nell'immagine, nel feno-meno, trovo una sorta di pretesa di realtà. Trovo però molte altre cose, e posso descriverle. Ogni fe-nomeno è un mio vissuto (Erlebnis): non è un'immagine nel vuoto, ma un'immagine mia. Così, nella sua completezza, il fenomeno non è l'albero, ma è "io che vedo l'albero", io che percepisco una cosa qualunque. Ora, riassumendo molto sinteticamente (e limitandoci a quella parte del pensiero di Hus-serl che viene conosciuta e influenza il pensiero immediatamente successivo), la situazione può es-sere descritta così: se è vero, come afferma l'idealismo, che non si dà conoscenza che non sia una rappresentazione, cioè un'immagine mentale della realtà presuntivamente esistente fuori dal sogget-to, allora è anche vero che non si dà realtà fuori dalla rappresentazione. La descrizione e lo studio della rappresentazione, del fenomeno o Erlebnis, è dunque il compito primario della filosofia. Se mai il pensatore potrà raggiungere la realtà esterna e garantire che sta toccando qualcosa che esiste indipendentemente da lui, ciò sarà possibile esclusivamente partendo dalla descrizione senza pre-giudizi del fenomeno.
Questa posizione ha un enorme vantaggio: reindirizza tutte le energie della ricerca verso la de-scrizione di "ciò che si vede", pur sapendo, come premessa generale, che un conto è il fenomeno e un altro conto è la realtà in sé; distogliamo lo sguardo dal mero operare logico dell'intelletto e co-minciamo a dire che cosa si vede. Però c'è anche un enorme svantaggio, ed è appunto quella paren-tesi in cui abbiamo chiuso la questione circa la realtà che il fenomeno pretende di avere: alla fine, la descrizione dell'immagine mentale dell'albero è anche descrizione dell'albero reale? Non è una que-stione di poco conto. Indipendentemente dal modo in cui successivamente sviluppa il suo pensiero, questo è lo stato del problema quale lo si rintraccia nell'opera di Husserl che ha la più vasta e imme-diata risonanza: le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, del 1913. Da questo libro partono molte ricerche.
Martin Heidegger (1889-1976) si accosta al nuovo metodo di Husserl sperando di trovarvi la via per affrontare il tema che più gli interessa, e che è il più classico della filosofia: il problema dell'es-sere. Tuttavia, di fronte alla formulazione del metodo husserliano del 1913, dubita che sia possibile un'analisi priva di presupposti e pregiudizi, e vede nell'Husserl delle Idee una ricaduta nell'ideali-smo. Heidegger recupera l'idea di Dilthey che ciascuno di noi si trova sempre collocato in una pre-comprensione della sua situazione, e dunque appare necessario esplicitare e interpretare in modo consapevole i presupposti che caratterizzano, e condizionano, la presenza dell'uomo in una situazio-ne qualunque. Data una situazione, l'esserci dell'uomo ha sempre, già, la forma dell'averla interpre-tata. L'esserci è un fenomeno, come tanti altri di cui si occupa l'analisi fenomenologica, però ha una sua caratteristica che lo rende unico: mentre tutti i fenomeni come l'albero sono oggetto di interpre-tazione, l'esserci è anche il soggetto che interpreta ed è consapevole di sé.
Potremmo descrivere la cosa in questi termini: l'Erlebnis di Husserl è un'unità integrata da due elementi: l'io che guarda la cosa e la cosa guardata, io e l'albero. Dell'albero posso dire che, come fenomeno, sembra rinviare a una realtà esterna alla coscienza, ma della quale non ho alcuna prova; invece, di me che guardo l'albero posso dire che sono consapevole di esserci, e che ho già una pre-comprensione, una interpretazione di me stesso. Allora, solo partendo da questo strano ente (io che ci sono nella situazione) posso interrogarmi in modo nuovo sull'essere. L'uomo ha la struttura
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dell'esserci (Dasein), è cioè un ente che, consapevole di esistere (cioè si rapporta a se stesso), si comprende nel suo essere, sia pure in modo vago e nelle forme della precomprensione.
In Essere e tempo (1927)20, Heidegger compie questo cammino un po' arzigogolato, avviando di fatto un'analisi fenomenologica della persona umana. Nelle sue intenzioni si tratta di una ricerca strettamente ontologica, ma, di fatto, il libro resta incompiuto, consegnando al pensiero filosofico un'analisi che sarà fondamentale per tutte le correnti esistenzialiste del Novecento. L'essere, o me-glio la persona, non è dato e compiuto, ma progetta chi sarà, in base alle possibilità di essere. Que-sto implica che la persona non è il soggetto di cui parla la filosofia moderna in termini quanto mai astratti, ma è un essere-nel-mondo. Viene meno la separazione cartesiana tra io e mondo, perché trovarsi nel mondo è un elemento costitutivo dell'io: non si dà io senza mondo né, evidentemente, mondo senza io (mondo significa anche gli altri, il noi, il mondo comune). Poiché l'essere della per-sona non è compiuto, ma è tensione a divenire ciò che ha progettato, l'esserci implica il prendersi cura delle cose, vale a dire (semplificando il discorso inutilmente complesso di Heidegger) che il mondo mi offre gli strumenti per realizzare il mio progetto; ho cura dell'albero perché progetto di sopravvivere grazie ai suoi frutti, e per me l'albero non è (nella situazione dell'esserci) una cosa in sé, ma è lo strumento che mi fornisce il cibo, cioè un "mezzo per", qualcosa che rimanda ad altro. Mondo è l'insieme di questi rimandi, il complesso dell'usabilità: l'esserci si colloca al suo interno e ha con esso una familiarità.
Nel mondo l'uomo si trova con una situazione emotiva (cioè constata che ha delle emozioni che nascono al contatto col mondo stesso). Di particolare rilievo è l'emozione dell'angoscia. L'uomo si ritrova nel mondo senza sapere da dove viene e dove va, vi è gettato, e quindi è spinto a comprende-re, per poter progettare. Progettare, progettarsi, è inevitabile. Se l'uomo vi rinuncia, e si conforma a ciò che si dice, si pensa, si fa, diventando anonimo e indistinguibile, impersonale, il risultato è una inautenticità che conduce a uno scadimento o decadenza morale, perdita di senso dell'esistenza. In-fine, l'ultima caratteristica dell'esserci è il suo carattere transitorio: l'essere cesserà di esistere, es-sendogli impossibile sottrarsi alla morte (qui, in realtà, la descrizione fenomenologica di Heidegger è viziata da un grave errore, sottolineato da Ortega: nel fenomeno, nella descrizione fenomenologica dell'esserci, la propria morte non è affatto presente).
L'analitica esistenziale di Heidegger costituisce la base dell'esistenzialismo di Jean-Paul Sartre (1905-1980), la cui opera ha un'influenza enorme nella letteratura. Per Sartre, tutto ciò che è reale esiste di fatto, qui e ora, e non ha una causa (ad esempio la creazione di Dio). Il reale esiste, benché la ragione non sappia spiegarlo, c'è di fatto, senza fondamento, radicalmente contingente e, per que-sto, assurdo. Nulla può spiegare l'esistenza dell'essere, che dunque è in sé. Ciò porta al problema di spiegare il divenire innegabile di questo essere in sé, nonché la presenza dell'uomo, dotato di libertà, dentro questo essere così rigido e sostanzialmente immobile. Se l'uomo appare eterogeneo all'essere, quale lo ha descritto Sartre, bisogna concludere che egli ha un essere diverso, cioè che è per sé. Questo è apparentemente contraddittorio, se tutto ciò che esiste è, invece, in sé; di conseguenza l'es-sere di altro tipo, cioè la realtà umana, coincide con il nulla. Questo non significa che l'uomo non esista: l'uomo ha una dimensione evidente di corporeità e fisicità che rientra pienamente nell'essere in sé, e dunque esiste di fatto; poi ha una dimensione che, in parole correnti, chiamiamo specifica-
20 Martin Heidegger, Sein und Zeit, ed. it. di Alfredo Marini: Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006 ("I Meridiani"). Que
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