Nel suo stadio più maturo, negli anni '80, il Graficismo si esprime attraverso segni minutissimi, afigurali, autonomi da suggestioni simboliche e da qualunque impianto narrativo o descrittivo; segni aerei, dilatati, che rigano la superficie della tela come una pioggia impalpabile oppure più corposi, perentori e graffianti, che invadono il supporto come un flusso magmatico ora fluido ora vischioso. Flusso che dialoga in modo strettissimo con lo spazio, apparentemente silenzioso e neutro, ma in realtà capace di entrare in risonanza con la polvere dei segni per accoglierne ed amplificarne le intime vibrazioni e diventare così esso stesso vivo e pulsante, all'interno di opere percorse da un estremo dinamismo. Opere aperte, insofferenti del limite tanto che i segni spesso invadono i bordi; opere prive di centri prospettici e di nodi focali: anche quei nuclei nei quali sembra concentrarsi e per un momento acquetarsi l'energia segnica non creano momenti di stasi, anzi; centripeti e centrifughi insieme, spesso addirittura si deformano, si aprono ed accolgono il vuoto, mentre un sottile brulichio segnico si aggrappa ai bordi ed infine li fa esplodere, li annulla e li travalica, come percorso da un dinamismo vorticoso che, a tratti, sembra quasi violentare lo spazio, in una tensione dialettica continua tra movimento e stasi, concentrazione e rarefazione.
Essenzialità, semplicità, purezza diventano concetti-chiave per questi segni che appaiono carichi di una profonda sensibilità, capaci di captare, di trattenere e di esprimere le sensazioni più profonde, le impressioni più fugaci, le palpitazioni più segrete dell'essere. Ne scaturisce così un moto vitale che è il moto stesso dell'esistenza e nei tratti ora dolci ora aspri e nei cromatismi ora tenui ora violenti si trascrive una realtà interiore in continua evoluzione, mentre lo spazio e il tempo – contingenti, individuali – sembrano situarsi anche in una dimensione altra, collettiva, atemporale, fino a condurci in spazi siderei in cui i segni appaiono una vorticosa pioggia cosmica.
Siamo al di là, come dicevo, di qualsiasi ipotesi figurativa o descrittiva. Siamo al di là di un segno che vuol tracciare soltanto i confini di una forma o far emergere gli archetipi della nostra coscienza; al di là di un segno che vuol indagare i tratti ontologici del linguaggio estetico o esprimere un gesto. Il segno graficista è qualcosa di diverso: è un “segno-in-sé”, uno “scoppio polisignificante” che aspira ad una totalità assoluta, pregnante, espressiva, comunicativa, simbolica e metaforica che l'artista ha lucidamente, volitivamente, coerentemente ricercato fin da quando, negli anni '70, ha avvertito l'esigenza di superare la forma e la materia per cogliere ed esprimere la realtà – interna ed esterna – nel modo più diretto ed essenziale.
Anni '70. Era il tempo delle BIROGRAFIE: e Biagi, con la penna a sfera, in sotterranea e sottile polemica con l'omologazione e la serialità spersonalizzante della società dei consumi, tracciando su cartoncino le sue forme, cercava di rivendicare, al segno, la sua irriproducibilità e la sua calda e diretta manualità, all'artista, la sua unicità ed irripetibilità creativa.
Sul cartoncino bianco prendevano vita uomini-giocolieri o, meglio, larve umane spesso ripiegate su se stesse o talvolta rabbiosamente tese verso l'alto a rivendicare, con quel gesto volitivo, la loro dignità calpestata. Era il tempo in cui bidoni vuoti e contorti e poi brandelli di forme invadevano caoticamente lo spazio e fagocitavano ogni forma di vita senza che si prospettasse alcuna luce consolatoria. La quadrettatura del foglio non serviva a riportare il caos in un anelato cosmos: la realtà appariva smembrata e l'uomo irrimediabilmente schiacciato. Ma, al pari delle sue larve umane non rassegnate all'acquiescenza e al silenzio, Biagi cercava il modo di travalicare quella realtà, operando un processo di scarnificazione, riduzione e azzeramento di forme e materia per ricercare nel segno – nuovo archetipo - un modo per ricostruire e indicare una realtà diversa e una moralità diversa, nell'arte e fuori dall'arte.
E i segni cominciarono così a graffiare, rigare e corrodere le forme e ad assumere una vita sempre più autonoma e libera: nel periodo dei LABILI (fine anni '70) il lavoro grafico, ad esempio, si concentrava, puntiglioso, all'esterno dei bordi di forme casuali.
La forma così veniva negata, allusa in negativo dal vuoto, dal nulla (i NEGOGRAFICI), mentre il segno si trasformava impercettibilmente da segno racconto a segno-spazio e, raggrumandosi nei fulcri energetici, vanificava la coerenza compositiva e cromatica dell'insieme per creare linee-forza e traiettorie alternative: poliprospettiche, prive di qualsiasi centralità, le opere apparivano così frammenti di un insieme più vasto, di un discorso infinito...
La totalità, d'altra parte, è sempre stata una meta ambita dal Graficismo, come dicevo sopra: riuscire ad esprimere, con il segno, l'essenza della realtà, trascendere ogni dato naturalistico, creare una nuova sintesi di astrazione e figurazione, emozione e razionalità, microcosmo e macrocosmo per diventare opzione artistica ma anche etica e sociale. Il segno aprogettuale, scarnificato, essenziale, puro e diretto, singolare e plurale nel suo flusso dinamico ha sempre cercato così di mediare arte e vita per un'arte ed un comportamento più diretti, veri, autonomi, coscienti e liberi, in ogni campo. Liberi dai condizionamenti, dalle sovrastrutture, dalle vuote retoriche, dalle omologazioni e dai falsi miti che tradiscono la sostanza più genuina dell'homo faber: quell'humanitas che è visione a tutto tondo, riscoperta, valorizzazione e rispetto di sé e degli altri e azione consapevole, stimolo, gesto.
Proprio per questa esigenza di totalità le ragioni di questa nuova sensibilità segnica sono state chiarite, discusse, approfondite, urlate, quasi, nei Manifesti che fino a tutti gli anni '80 hanno accompagnato le opere: manifesti polemici contro i compromessi dell'arte o gli atteggiamenti retrivi, statici o chiusi; manifesti in cui la parola è arrivata ad essere quasi speculare al segno e il linguaggio, percorrendo i sentieri di uno sperimentalismo esasperato, è diventato veramente un sovralinguaggio, con i suoi brandelli di parole, i suoi neologismi ossimorici e anagrammatici o le sue commistioni di più piani semantici e sensoriali. Quando questo è accaduto anche il segno era ormai diventato assoluto, polisignificante, libero. E la parola – tautologica del segno – ha preso un'altra strada per ricomparire più tardi nelle meditazioni dei testi di Miradario (l'alter ego dell'artista) e nelle pièces teatrali: coerentemente, perché il Graficismo è anche ciò che da esso è rampollato, ineludibile telos. E così siamo arrivati – e i GRIGI della mostra ne sono un esempio – ad un segno diretto e conciso, puro, dinamico, emotivo, tattile, sensibile, materiale e immateriale nello stesso tempo che, nel suo continuum inarrestabile sembra proiettarsi in uno spazio illimitato.
D'altra parte L'ESSERE E' UN CONTINUO TRANSITARE per il Graficismo. E' insofferenza del limite.
E' ansia dell'oltre. E' volontà di tendere al futuro, memori sempre però di un passato vitale. Anche gli echi di esperienze segniche anteriori rimangono così come “calore di fiamma lontana” , travalicati e ricreati in un escavo segnico di assoluta originalità: un escavo sempre penultimo, in cui l'adozione del modulo circolare nella tela sembra sancire talvolta un temporaneo cosmos, una temporanea stasi, il punto precario di equilibrio tra segno e spazio.
Quasi ovvio pertanto che, dopo aver saggiato tutte le sue possibilità espressive, il segno impalpabile, avvolgente e morbido dei primi anni '80 abbia ricercato uno status più perentorio. Così, nella serie dei NERI, la tela è invasa violentemente da segni più corposi, fittissimi, che evocano più spessori e piani e fagocitano spesso tutto lo spazio lasciando talvolta emergere – ex negativo – contorni di ipotetiche forme (larve umane, elementi archetipici o cosmici?). Tornano in mente le “figure” delle BIROGRAFIE o, a ritroso, certi corpi smembrati o contorti delle acqueforti o degli oli dei primi anni '70. Il Graficismo infatti, nella sua linearità avvolgente, ammette recuperi, rimandi, amplificazioni, temporanei silenzi....
Ma si va oltre: sul bianco della tela si accampa talvolta un elemento vagamente circolare o ellissoidale che sembrerebbe un'enfatizzazione dei nuclei energetici. Ma tale ”forma” è vanificata dalle vibrazioni sottilissime dei segni minuti che la compongono, i suoi confini con lo spazio bianco sono indefiniti, pieni di fremiti; e in gran parte il significato dell'opera sta proprio qui, nel bordo tra interno ed esterno, ai limiti tra la forma e la non-forma. Sta nella frontiera, metafora dell'oltre. E il processo non si ferma: il segno graficista, dopo i Neri, va ancora oltre e, dopo aver saggiato il massimo spessore ottenibile con la grafite, dopo aver sfruttato, con i ROSSI, l'incisività cromatica dei pennarelli per far emergere dal nulla porzioni d'infinito, tasselli di un puzzle mai concluso (si veda l' ECCITOGRAFICO dell'88 ), ricerca una sua oggettivazione: nascono gli ECCITOPLASTICI come momento di sintesi, azzeramento e superamento di grafica, pittura e scultura. Sono opere lineari in legno e tempera con graffi e abrasioni: propongono elementi formali vari, spesso curvilinei, che talvolta si aprono a citazioni dal mondo naturale (i profili delle montagne), antropizzato (i nastri di asfalto), cosmico (l'anello di Rubbia), anche se, a ben vedere, tali citazioni si trasformano in qualcosa di assolutamente altro. Sono opere pulsanti, in cui l'apparente staticità plastica è contraddetta dal fremito continuo dei segni sulle superfici, dalla luce chiaroscurale delle tempere, dall'attenzione rivolta ai bordi, spesso rialzati: non solo frontiera dinamica dell'oltre, confine tra finito e infinito, volontà e casualità, ma anche, ora e soprattutto, attenzione stupita e commossa per ogni “divenire al reale”, per ogni piccola mutazione o evento che nasce dal nulla.
Un filo sottile condurrà da queste opere alle recenti ESTROFLESSIONI: altra tecnica, altre forme, altri recuperi, ma sempre il brusio dei segni, dei graffi, dei giochi di luce sulle superfici.
“IL GRAFICISMO NON SI SUPERA, SI PERCORRE“ aveva scritto Biagi negli anni '80. Ed è vero. Dall'immaterialità e dall'impalpabilità segnica al recupero materico negato dal gioco sottile e allusivo dei segni sulle superfici delle Estroflessioni: questo è dunque il Graficismo. Dal microsegno al macrosegno ipersemantico che può anche diventare “oggetto” (la SEDIA GRAFICISTA del '91 o la recente SEDIA DEL COLLEZIONISTA, le ceramiche): “idealità pratica” delle opere, loro completamento e prolungamento nel quotidiano generati da quell'ansia di totalità che nel Graficismo è costitutiva, come ho detto più volte.
Una totalità allusa peraltro da un archetipo sotteso alle larve umane ripiegate su se stesse, ai nuclei energetici, agli eccitoplastici ellissoidali, al D.A.R. rosso dell'89, alle teste o ai corpi di tante figure delle recenti estroflessioni e così via: l'ellissoide/uovo che, come l'uovo primigenio delle mitologie orientali, diventa simbolo dell'origine del tutto che tutto in sé contiene e che, nel Graficismo, si pone quasi come emblema della sua ricchezza e pregnanza espressiva e semantica e dei metamorfismi del suo segno parola e della sua parola-segno che, nelle pièces teatrali, si materializza nel qui e ora della recitazione. Emblema, infine, anche della molteplicità di echi (culturali, storici, esistenziali, filosofici) che nel Graficismo confluiscono per essere ricreati e trasformarsi in pura energia vitale, continuo oltre.
No: tra il Graficismo e i suoi sviluppi – i suoi dintorni – non c'è cesura. Il segno, vera araba fenice, continua a dialogare con lo spazio, in modi diversi, ma sempre ugualmente diretti, vissuti, dinamici, pieni di una tensione creativa e di un anelito d'infinito che delinea, nell'artista, un titanismo eroico. Se ne evince una lezione di coerenza, rigore, misura.
Apparentemente FRAMMENTI dunque... ma frammenti di un tutto organico e profondo.
Anna Brancolini
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