E ancora: “L’arte mi interessa parecchio, mi piace. Sono un collezionista istintuale. Se un quadro mi piace provo l’immediato desiderio di possederlo per poterlo guardare quanto voglio, per sentirlo parte della mia esistenza quotidiana“.
La mostra UNCOVER della Galleria Lato, dal 25 ottobre al 7 dicembre, è un libero omaggio a Enrico Coveri, al suo entusiasmo e allo stesso tempo alla sua malinconia. Amico di Keith Haring, il primo di molti artisti che ha conosciuto nel corso della sua vita, ha come lui una personalità complessa, a due velocità: unajoie de vivre incontenibile - che uno riversa sulla tela, e l’altro su abiti che vogliono rendere le donne, tutte le donne, belle e sensuali – su cui talvolta scende un velo denso di inquietudine. E’ qui che nasce il contrasto con i colori accesi e le forme rubate al mondo dei cartoon che appartengono al linguaggio di entrambi. Il quadro di Haring nella Collezione Coveri è la sintesi più efficace di questo modo di essere condiviso: un grande albero intorno al quale si agitano sagome fluo. I colori impiegati e la presenza dei segni di movimento danno un’impressione di vivacità e dinamismo. L’albero verde simboleggia la speranza. Le foglie, che si stanno trasformando in esseri umani, alludono alla nuova generazione che forse non sarà più vittima dell’intolleranza. Sotto l’albero, come foglie morte, ci sono delle sagome umane contrassegnate dalla X, simbolo della malattia. In questa mostra non vedrete il quadro di Haring, e neanche una delle 45 opere dei protagonisti italiani della Pop Art, dell’Informale e dell’Arte Povera, tutte datate 1988 e create per lo stilista, che fecero parte di un grande progetto di Coveri con Marta Marzotto per la campagna dei 10 anni della Maison. Abbiamo usato l’istinto, come faceva Enrico nello scegliere i quadri di questa mostra, e creato un percorso che ci ricordasse lui, il suo mondo, ma anche quel periodo tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, in cui molti di noi sono cresciuti. Abbiamo ricordato la gigantesca bolla consumistica, il paese dei balocchi in cui siamo vissuti per un periodo e ripensato a quella Milano da bere che sembrava, allora, alla portata di tutti. Un universo sicuramente colorato e smart, in cui aleggiavano sinistre e senza che ce ne curassimo più di tanto le grandi epidemie moderne, gli anni di piombo e gli effetti di una economia e di una cultura votate allo sfruttamento. Le sfere colorate di Paolo Masi sono allora le paillettes di Enrico; la piccola finestra azzurra di Yoko Ono, un monito su quello che ci avrebbe aspettato dopo quel periodo così eccentrico; il graffito di Toxic, rappresenta la New York degli amici di Coveri: Haring sì, ma anche Basquiat, ritratto da Lee Jaffe, e Warhol, presente in mostra con una serie delle sue famose scarpe. Il collage di D’Ottavi, è colore, moda ma anche il grigio piombo di quel periodo storico; quello di Villeglè riporta alla mente Rotella, un artista e una tecnica amati dallo stilista toscano. Poi c’è il violino della Moormann, la poesia visiva di Chiari, la bocca pop della Bentivoglio, le cravatte di Buscioni. Qui il filo seguito è stato puramente estetico: le stampe di Coveri avevano quei colori e quelle forme, venivano dalla strada, da quegli anni controversi. L’arte, attraverso i suoi protagonisti, le ha raccolte e interpretate. Ma è stata anche l’arte di Coveri - come la definii Gillo Dorfles nel saggio per la mostra del Museo Pecci dedicata allo stilista - a portarle fino a qui, imprimendo nei nostri occhi le fantasie dei suoi abiti.
Francesca Lombardi
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