Simone Azzurrini, Alessandro Baito, Andrea Boldrini, Ivano Boselli,
Antonio Caramia, Valentina Carrera, Drago Cerchiari, Mark Cooper,
Alessandro Crini, Enza De Paolis, Gaetano Fiore, Massimo Gasperini,
Vito Giarrizzo, Sergio Gotti, Bruno Moretti Sanlorano,
Guido Oggioni, Virgilio Patarini, Roberto Scarpone,
Franco Simonelli, Max Solinas, Fabiano Speziari.
A cura di Valentina Carrera, Virgilio Patarini, Barbara Vincenzi
Coordinamento: Martina Corbetta e Alessandro Crini
Organizzazione: Associazione Culturale Zamenhof Art
Tortona, Palazzo Guidobono
18 marzo – 9 aprile 2012
Questo non è un albero
Nel mezzo del cammin di nostra vita
Mi ritrovai in una selva oscura
Che la diritta via era smarrita…
In francese c’è una parola (bois) che indica sia il bosco che il legno. Ecco, la mostra “Labirinti di legno” parla proprio di questo: di boschi, alberi, legno; e lo fa con linguaggi diversi dell’arte contemporanea come la pittura, la scultura, la fotografia, le installazioni.
Ciascuno dei venti artisti selezionati racconta storie di alberi, boschi, o penetra nella materia stessa del legno con il proprio stile e con la propria sensibilità, ma tutti hanno una cosa in comune: nessuno di loro ci rimanda una visione, una interpretazione del bois stereotipata o scontata. E soprattutto per nessuno di loro un albero rappresentato rappresenta davvero un albero. Nemmeno per il più classicheggiante degli artisti proposti, Bruno Moretti Sanlorano, che ci presenta un albero dipinto con pennellate pastose e ritorte, alla Van Gogh, che come Van Gogh non rappresentano un albero, ma un’anima vibrante e le sue pulsioni vorticose. E lo stesso fa Drago Cerchiari con i suoi boschi canadesi in fiamme. Così come Antonio Caramia che ci proietta in un mondo magico e sospeso dove gli alberi sono presenze oniriche e misteriose. E neanche Alessandro Crini, che dipinge zoomate di tronchi e sezioni di legni con maniacale iper-realismo fotografico, ci vuole mostrare un tronco, ma usa questo spunto visivo per mettere in questione l’assurda distinzione tra figurazione e astrazione. Allo stesso modo, ma con strumenti diversi, quasi opposti, il fotografo americano Mark Cooper fa la stessa provocazione con foto aeree di paesaggi con alberi, che visti dall’alto diventano suggestive composizioni astratte. E anche tutti gli altri fotografi in mostra (Carrera, Baito, De Paolis, Boselli) usano le foto di boschi, alberi o legno come pretesto narrativo, spunto compositivo o elemento simbolico per raccontarci altro: per la Carrera gli alberi sono elementi di composizione metafisica; per Alessandro Baito luoghi di epifanie colte per analogia, per Enza De Paolis un unico albero “blu” si staglia come un monolite romantico nel paesaggio terso, mentre Ivano Boselli (come Crini con la pittura) stringe l’inquadratura sulla materia legno fino all’astrazione.
D’altronde da sempre, dalla notte dei tempi, il bosco e l’albero hanno avuto un significato simbolico e una funzione sacra, rituale. L’albero come oggetto totemico per eccellenza e il bosco come luogo sacro. E l’attraversamento del bosco è in moltissime civiltà arcaiche una delle prove d’iniziazione per eccellenza. Per non parlare delle evidenti analogie formali e simboliche tra bosco, labirinto e mondo degli Inferi. E dunque attraversare, entrare ed uscire da un bosco è compiere un’azione magica e iniziatica come entrare e uscire da un labirinto, come attraversare il mondo degli inferi, e uscirne vivo. L’incipit della Divina Commedia è sotto questo aspetto esemplare. Inutile sottolineare come la struttura dell’Inferno dantesco sia a tutti gli effetti un labirinto a spirale. E allora Teseo, Orfeo, Dante e Cappuccetto Rosso sono, mutatis mutandis, la stessa persona, protagonisti della stessa storia: quello che per Teseo è il Labirinto, per Dante e per Orfeo è il mondo degli Inferi, per Cappuccetto Rosso è il bosco. E il Minotauro di Teseo è Minosse per Orfeo, Satana per Dante (ma anche Minosse) e il Lupo per Cappuccetto Rosso. E poi Arianna con il suo filo che di volta in volta diviene la cetra, Virgilio e Beatrice, il Cacciatore col fucile e col coltello.
Ed è di questa sfera più sacra e arcana che parlano molte delle sculture e delle installazioni in mostra: i tronchi bruciati e marchiati letteralmente a fuoco della Carrera scultrice, le installazioni alchemiche e para-rituali di Simone Azzurrini e anche le spirali perfette e metafisiche di Massimo Gasperini. Qualche ulteriore risvolto psicanalitico invece si può scorgere nella grande scultura di Fabiano Speziari, sottolineato dalla presenza di listarelle di specchi tra le nere sinuosità di una foresta astratta. Nel caso dell’installazione del sottoscritto (Virgilio Patarini) invece il labirinto è un bosco di libri trafitti, dove il foglio è una foglia e la carta allude al legno da cui deriva: un dedalo di parole e di memorie strappate, dimenticate. E l’elemento misterico si fonde con quello culturale. Mentre le figure femminili di Max Solinas, scolpite nel legno, alludono a un mondo mitico in cui ancora è possibile la trasformazione tra essere umano e animale, tra animale e vegetale.
A proposito di analogie formali occorre poi sottolineare come il legno, il tronco di un albero sezionato, sia in orizzontale che in verticale, rimandi all’immagine del labirinto. Nella sezione orizzontale i cerchi concentrici degli anelli che ci svelano l’età dell’albero, la successione temporale delle stagioni, ricorda decisamente il labirinto classico a spirale o a cerchi concentrici; mentre un taglio verticale, come quello che si fa per ricavare delle assi, grazie alla presenza dei nodi, svela attraverso le nervature percorsi di labirinti più variegati, meno simmetrici e regolari, più tortuosi.
E così nel microcosmo del tronco di un singolo albero si ritrova la stessa struttura labirintica del macrocosmo del bosco, come ben si può vedere nei quadri del già menzionato Crini e anche nelle opere di Guido Oggioni, che inserisce nelle sue composizioni astratte, fatte di ampie campiture giustapposte, listarelle sottili di tronco sezionato dalle forme irregolari in cui spiccano per contrasto le nervature del legno ed hanno la funzione di spezzare e delimitare le parti a plat di colore pastoso.
E sempre in merito alle analogie formali i titoli delle opere di Vito Giarrizzo, che chiama “Mandala” dei dedali vagamente simmetrici e geometrici di rami intrecciati, subito ci fanno balzare alla mente l’analogia tra labirinto classico e mandala tibetano. E ancora una volta entriamo nella sfera del sacro e di azioni rituali. Diversi invece sono gli intrichi di rami delle “vegetazioni spontanee” di Franco Simonelli che usa il pretesto dell’intreccio arboreo per libere composizioni sinuosamente astratte che rappresentano una sorta di flusso di coscienza di Joyciana memoria declinato pittoricamente. Mentre i tronchi recuperati e ricontestualizzati come sculture da Roberto Scarpone ci appaiono come reperti di una archeologia della natura: come se la natura fosse una civiltà perduta e sepolta da riportare alla luce. E una analoga problematica questione suggeriscono le sculture di Sergio Gotti, mettendo in contrasto forme meccaniche con elementi fitomorfi: ovvero l’incontro-scontro delle macchine con la natura. O viceversa, come dice Barbara Vincenzi: “ è l’uomo che si mette in contatto con le radici della vita, alla ricerca degli archetipi primordiali perduti, sapientemente portati alla luce e svelati nella materia”.
E perdersi in un bosco è come perdersi in un labirinto anche come sensazione emotiva, psicologica: unheimelich, l’avrebbe definita Freud, uno spiazzamento, un trovarsi in un luogo al tempo stesso familiare e sconosciuto. Provate a immaginare: camminate in un bosco, vi allontanate dal sentiero conosciuto, girovagate un po’ senza meta, poi decidete di tornare indietro… ma a un certo punto tutto vi sembra uguale e diverso al tempo stesso: non siete più sicuri se da quel luogo siete già passati, gli alberi sembrano tutti uguali, non vi ci ritrovate, vi siete persi, e tornare più volte nello stesso posto (o credere di tornare, che è lo stesso) manda in cortocircuito la percezione del tempo, e il senso di smarrimento dilaga, il tempo si dilata fino ad una apparente sospensione, il panico prende il sopravvento… E riflettendo su questo rapporto stretto e in qualche modo “magico” tra labirinto e sentimento del tempo appare meno casuale anche l’analogia formale tra labirinto e mandala.
Oggi poi la moderna psicoanalisi ci ha fornito ulteriori strumenti per intendere il significato simbolico dell’attraversare quel labirinto di legno che è un bosco, luogo d’ombra per eccellenza, pieno di presenze potenzialmente minacciose, esseri reali o immaginari, ricettacolo delle nostre ancestrali paure, dove occorre perdersi per ritrovarsi, e avere il coraggio di entrare per poterne uscire più forti, e correre dei rischi, e su tutti il rischio di perdersi, di morire, per poter rinascere.
Ma occorre infine soffermare la nostra attenzione anche sull’elemento albero, sulla sua presenza, sulla sua forza evocativa, sulla sua valenza simbolica. Dell’albero o del tronco come elemento totemico si è già accennato: “Gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto”(Tagore).
Ma esiste un altro aspetto che si può rilevare, un’altra analogia si può individuare. Scriveva Hermann Hesse: “Gli alberi sono sempre stati per me i più persuasivi predicatori. Io li adoro quando stanno in popolazioni e famiglie, nei boschi e nei boschetti. E ancora di più li adoro quando stanno isolati. Sono come uomini solitari. Non come eremiti che se la sono svignata per qualche debolezza, ma come grandi uomini soli, come Beethoven e Nietzsche”
I due artisti che più di tutti centrano la loro attenzione sull’albero singolo, ovvero Boldrini e Fiore, (a parte Moretti, Speziari e Caramia, di cui si è già parlato), sembrano aver fatto tesoro di questo spunto di Herman Hesse . Andrea Boldrini lo espicita fin dai titoli: ognuno dei suoi tronchi ha un nome di uomo o di donna. Non è un tronco, non è un pezzo di albero: è la rappresentazione, sub specie vegetale, di un essere umano. Allo stesso modo, come giustamente osservato da Jurgen Lensen, con gli alberi stilizzati e “inquadrati” di Gaetano Fiore “vengono presentati e lo stato intermedio proprio dell’essere umano e la sua esistenza tra tempo ed eternità, limitatezza e libertà, morte e crescita”. E quello che io stesso ho scritto sempre a proposito degli alberi di Gaetano Fiore si può estendere non solo a Boldrini, ma anche a Carrera, Speziari, Moretti, De Paolis, Simonelli, Caramia, Scarpone: ovvero a tutti quelli che in questa mostra presentano, apparentemente, attraverso dipinti, sculture o fotografie, raffigurazioni di tronchi o alberi: la figura dipinta, l’albero o l’intreccio di alberi o altro, campeggia al centro della scena come (...) qualcosa di mentale, qualcosa di sinteticamente astratto. E la sequenza di quadri, di alberi (...) assume il valore di una ricerca concettuale sul rapporto tra il soggetto e il mondo circostante, tra un soggetto e un altro soggetto, e tra diversi soggetti. Gli alberi (...) siamo noi. Attraverso quello che T.S. Eliot (e Montale con lui) avrebbe chiamato un “correlativo oggettivo” l’artista ci racconta l’essenza dell’uomo, “sub specie aeternitatis”. Il suo rapporto col mondo circostante, con l’altro, con gli altri, le possibilità del convivere civile. L’albero è l’uomo. E il bosco è la società umana: l’intrecciarsi di relazioni, lo stare accanto, l’affondare le radici nella stessa terra, lo stagliarsi nello stesso cielo.
Virgilio Patarini
Foto di Gaetano Fiore
Finissage della mostra - Breve recital teatral-musical-letterario con Laura Rolandi (voce recitante)
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