Mostre, Milano, 07 February 2008
Nel segno della Finzione
Mostra Personale di Salvatore Montoleone (uraken)
A cura di Argano Brigante
Testo Critico di Alessandro Riva
25 gennaio ore 19 Spazio Tadini, via Jommelli 24, Milano

www.spaziotadini.it
www.cubeart.org

concessione del Patrocinio Ufficiale della Provincia di Milano per il progetto della rassegna "CubEart a Spazio Tadini"

Le similitudini impossibili di un artista novus Alessandro Riva
Chi è Uraken, strana forma di sciamano-artista, insieme ipertecnologico e restauratore di antichi riti appartenenti all'artigianato delle arti – in particolare alle tecniche di stampa manuali e calcografiche -, applicatore e teorico di un nuovo modo di affrontare il rapporto tra l'arte e le tecniche - quelle più antiche come quelle ipermoderne, che oggi si fan chiamare tenologie -, outsider del sistema dell'arte e anticipatore, forse, proprio in virtù di questa sua forzata estraneità, di nuovi stimoli e nuovi modi di intendere il rapporto della creazione artistica con il virtuale, e con le mille declinazioni della rappresentazione digitale: rapporto che, a poco più di dieci anni dalla sua comparsa, rischia già di perder smalto e senso, in uno stanco ripetersi di immagini elaborate, deformate, alterate, manipolate, che ci piovono addosso da ogni direzione, in una rincorsa senza fine e senza senso con le più moderne tendenze della moda, della pubblicità, del cinema, oltre che di quell'immenso tritacarne iconico e massmediale che è internet? Chi è, dunque, Uraken, pseudonimo che richiama antiche tecniche di lotta giapponese (nel karate è sinonimo di pugno rovesciato), e l'idea di una continua lotta, una battaglia insieme antica e modernissima, un instancabile corpo a corpo con la vita, con la materia, con il visibile, con il reale: o "il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno", per dirla con i futuristi, dei quali Uraken è, involontariamente e naturalmente, figlio, o per meglio dire pronipote?
E' un artista novus, secondo l'accezione originale, classica del termine: per provenienza, per disposizione concettuale: laddove, in arte, tutto è stato fatto e tutto già pensato o tentato, Uraken riallaccia il cuore e il senso profondo della propria ricerca all'uso, e al senso più remoto, della tecnica nella sua accezione più ampia: affrontando così di petto il nocciolo irrisolto non solo dell'arte, ma del paesaggio mentale dell'epoca cosiddetta surmoderna. Tornare a ragionare sulla tecnica – e sulla tecnologia -, il modo in cui ha cambiato non solo la nostra vita, ma anche il nostro modo di pensare e di rapportarci al mondo – dunque col visibile, e con ciò che questo rappresenta, per noi -, significa tornare a confrontarci con i fantasmi irrisolti del moderno: col senso, in arte, di quella famosa "perdita dell'aura" e di desacralizzazione dell'opera di cui già parlava, settant'anni fa, Walter Benjamin, che oggi pare lontana anni-luce, poiché ampiamente (ma solo apparentemente) superata dall'impossibilità, a novant'anni dalle prime provocazioni dadaiste e dai ready-made duchampiani, di definire anche solo il nocciolo, o il senso, del fare arte: poiché tutto, oggi, è passibile di definirsi arte (lo diciamo senza ingenuità né rettorica, ma come mera constatazione), da un esercizio di ginnastica a uno scontro automobilistico: ciò che lo fa diventare arte è, tautologicamente - e com'è del resto ormai arcinoto -, il suo esser considerato tale da chi ha l'autorità per definirlo appunto tale.
Uraken, dunque, compie un'operazione à rebours: un'operazione di recupero del senso del fare e del guardare arte: non snobisticamente "anacronista", in senso lato e storico, non elitariamente passatista o di rappel à l'ordre, ma, semmai, di scarto orizzontale: ripartendo dalla tecnica per ragionare sul visibile, sul nostro rapporto con il visibile e con l'opera; unendo, tecnicamente, tecnologia più avanzata e operazioni di riproduzione meccanica e manuale ormai considerate "arcaiche" (che sono poi gli archetipi simbolici della riproducibilità); e, formalmente, elaborazioni grafiche che sembrano pescare dall'immaginario digitale ludico diffuso e astrazione pura, suggestioni dinamico-futuriste ed elaborazioni dal sapore quasi fantascientifico, calembour estetici e raffinati giochi calligrafici. Ma la sua ricerca più profonda è dopotutto altrove: ovvero, proprio nel nostro rapportarci all'opera: è l'opera quella che vediamo sullo schermo del computer o solo la sua rappresentazione? Vi è un'opera originale da cui Uraken parte per le altre mille declinazioni digital-calcografiche, o sono tutte opere originali? E, se c'è un'opera originale, che senso ha il fatto che questa sia eseguita, appunto, con tecniche calcografiche, ovvero, già di per sé, attraverso gli archetipi della riproducibilità, ossia di quella perdita dell'aura di cui già parlava Benjamin? O l'opera, alla fin fine, è il tutto, il suo essere concretamente materiale, unica nel suo genere quando approda alla nostra vista, apparentemente visibile solo dal vero, eppure recodificabile, e dunque ridefinibile – e non meramente rappresentabile - in infiniti esemplari, i quali sono passibili di esser visti contemporaneamente da una sola persona come da milioni di persone (e l'accezione di "opera originale" sarà allora costituita null'altro che dall'incontro tra l'opera stessa e la nostra percezione della medesima attraverso lo schermo del computer)? Esemplare, in proposito, il suo Manifesto dell'arte digitiale, spedito via mail a decine di migliaia di persone con la scritta, dal sapore consapevolmente magrittiano, "This is not a reproduction of a work of art, this is Operation art. This is the Digital Manifesto dell'Arte" – dove il Manifesto, poi, non è che un'immagine: negazione nella negazione, laddove per "Manifesto" noi siamo abituati, dalle avanguardie in poi, a concepire invece una serie di segni linguistici, e non meramente grafici; il che ci porta, con Magritte, e attraverso di lui con Foucault, a ragionare sul fatto che l'enunciato stesso ("This is not a reproduction of a work of art, this is Operation art. This is the Digital Manifesto dell'Arte") ci conduce a riflettere sull'impossibilità della similitudine – similitudine della rappresentazione con ciò che rappresenta (questa non è una pipa, questo non è un manifesto, questa non è una mera riproduzione: allo stesso tempo è tutto questo, e non lo è), similitudine dell'immagine rimandata attraverso la via immateriale di internet con l'opera originale (ma non esiste opera originale, in questo caso: o meglio, ognuna è un'opera originale, e allo stesso tempo non lo è) -, similitudine dell'opera con i complessi e reiterati significati a cui essa rimanda, e dove "ormai la similitudine è rinviata a se stessa – dispiegata a partire da sé e ripiegata su di sé. Non è più l'indice che attraversa perpendicolarmente la superficie della tela per rinviare ad altro, ma inaugura un gioco di spostamenti che corrono, proliferano, si propagano, si rispondono sul piano del quadro, senza fermare né rappresentare niente. (…) Su tutti questi piani scivolano similitudini che nessuna referenza viene a fissare: traslazioni senza punto di partenza né supporto" (Michel Foucault, Questa non è una pipa). Anche le similitudini impossibili di Uraken, come quelle magrittiane, non rimandano dunque che a se stesse: al loro essere insieme opera unica e molteplice, originale e riprodotta, "moderna" e anti-moderna, figurativa e astratta, dinamica e statica (in quanto fissata sulla pagina, o su uno schermo), dal sapore vagamente fantascientifico e artisticamente "alta"; opera, volendo, e non-opera: e nel suo essere non-opera diventa fatalmente "l'opera" per eccellenza: venendo così a riconquistare, quasi per un miracolo d'antico sciamano, l'aura solo apparentemente perduta per strada dalle sue omologhe tanti e tanti anni fa.

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