Nel suo prodursi entro differenti territori espressivi, il progetto creativo di Arturo Baldan sembra voler depistare chi, tra osservatori e possibili esegeti, cerchi di delimitarne l’identità poetica e stilistica. Questa può, ipoteticamente, essere denotata proprio come proiezione di una irrequietezza e di una curiosità che, assecondate dal suo operare, hanno trovato modo di esercitarsi nelle varie soluzioni compositive adottate e, con esse, nelle scelte “materiali” attraverso cui hanno preso forma. Tuttavia, ciò che uno sguardo approfondito può riconoscere nella giovane storia della sua produzione artistica, è una evoluzione costante ed a suo modo coerente, in cui ognuna delle sperimentazioni di cui le superfici sono state sede ha recato in sé uno o più interrogativi - per loro vocazione aperti - in grado di generare un tentativo ulteriore e diverso.
Se il termine “ricerca”, con le sue valenze metaforiche, viene accostato non sempre in modo congruo al nome di molti operatori contemporanei, appare adeguato per accompagnare la vicenda dell’artista veneto, la cui originalità è indirettamente testimoniata dal moltiplicarsi contraddittorio dei riferimenti che questa ha richiamato: informale, arte cinetica, minimalismo, arte concettuale. Dimensioni espressive in effetti sfiorate, senza però manifestare un’autentica coincidenza con le loro forme ed intenzioni.
Arturo Baldan si è avvicinato all’attività creativa da autodidatta, portando con sé un patrimonio di interessi intellettuali e culturali – anch’essi riferibili ad ambiti fra loro diversi: filosofia, psicologia, letteratura – in grado di ampliarne il livello semantico, ulteriormente arricchito dalle “interferenze” della memoria, sia personale, sia collettiva. Aspetti che, nella lettura dell’opera, l’artista invita a riconoscere tramite un gioco di rimandi e concatenazioni di senso, che possono avere il loro innesco nelle mai casuali titolazioni scelte.
La pittura gestuale, l’affrancarsi del segno dalla figurazione, il fascino della materia cromatica, intesa quale presenza depositaria di un implicito valore: pur con la disseminazione di flebili tracce di una realtà riconoscibile, le superfici degli esordi guardano alle esperienze “informali” del dopoguerra, con una percepibile predilezione per il versante dell’espressionismo astratto. Entrambi eseguiti nel 2006, Sinfonia in bianco e nero e Monocromo azzurro, tra gli episodi più maturi di questa produzione, presentano la necessità di ricondurre entro un ordine più pacato le modalità dell’action painting, e con esse la sua traduzione immediata dei sobbollimenti dell’inconscio e dell’istinto. Tuttavia, sono ancor più i precedenti Black eyes ed Il segno del destino a lasciar intuire alcuni degli sviluppi futuri del lavoro di Baldan, che si appunterà cromaticamente sulla severità dei bianchi e dei neri, sul cui confronto sono basate le due opere. Nella seconda di queste, rapide pennellate nere intercettano, attraverso il loro svolgersi apparentemente spontaneo, una misteriosa figura fasciata che sembrerebbe dipinta su carta, e invece lo è sulla faccia “interna” del vetro adagiato poi sulla superficie bianca di fondo, affinché ciò che viene ad essere mostrato sia quello che l’artefice non ha potuto vedere durante il procedimento: il lato nascosto del colore. Un’operazione in cui le porzioni di bianco, nient’altro dunque che un “vuoto” cromatico, assumono funzione strutturante, e che occulta un gioco speculativo sull’identità degli elementi costitutivi il fatto espressivo, oltre che la possibilità di un sottile spiazzamento di chi la pone in essere.
Il colore tuttavia è destinato a caratterizzare l’ingresso nella successiva fase del suo lavoro, che rilegge l’impostazione rigorosa delle superfici di Mondrian tramite la tridimensionalità di moduli dalla forma cubica o di parallelepipedo, i quali si adattano a comporre strutture dall’andamento sinuoso in The Body del 2006, oppure rigidamente ortogonale, come in Scacco matto dello stesso anno. Proprio la soluzione adottata porta l’artista a riflettere sul rapporto tra unità e tutto, sospeso tra pensiero filosofico e la natura della moderna immagine tecnologica, tema quest’ultimo esplicitato nel grande assemblaggio Pixels, frammenti di luce, datato 2009. La stessa modalità operativa conduce ad un raffreddamento della componente emozionale, a favore della sottolineatura di quella mentale ed analitica. Questo procedere lambirà le ricerche cinetico visive, grazie agli inganni percettivi prodotti dalle strutture essenziali degli Effetti ottici, i quali mostrano occasionalmente la purezza materiale delle singole parti corrotta da gocciolamenti di colore, e sfumerà poi in territori più poetici, persuadendo la luce a muovere virtualmente la superficie di Corsi e ricorsi e del dittico Piegare la luce del 2009, scandendone depressioni e rilievi. Una sorta di bradisismo sotterraneo aveva invece perturbato quella di Assembly di un anno precedente, opera che, pur nella sua stasi, rievocava il concreto vibrare dei “muri” dell’indimenticato Gianni Colombo. Ma anche l’elemento base delle operazioni estetiche orchestrate da Baldan è stato recentemente caricato di nuove implicazioni, che hanno compreso un gusto della citazione dalle venature ludiche. Stabat nuda aestas, titolo di un celebre componimento dannunziano, si presta a descrivere il “denudamento” dal pigmento dei moduli, chiamati ad edificare una nuova composizione esibendo la loro essenza di piccoli cubi lignei ricoperti di tessuto, le cui piegature suggeriscono, accostandosi, un nuovo ritmo decorativo. La presentazione paratattica di sei elementi di maggiore dimensione, questa volta listati di nero, determina invece il riferimento ai Sei personaggi in cerca d’autore, opera del più noto tra i drammaturghi italiani.
L’alterazione dell’unità di superficie, o quella eventuale dei singoli pezzi che la compongono, è però l’aspetto forse più interessante dell’ultima ricerca dell’artista. Dalle quasi impercettibili erosioni, disseminate lungo le tangenze tra i vari pezzi, di Centri d’interesse, alludente fin dal titolo al metodo pedagogico di Ovide Decroly – che, non a caso, orientava il raggiungimento delle conoscenze di carattere generale attraverso l’analisi di singoli bisogni primari – al drammatico crollo strutturale di London. In questo caso, all’iniziale suggestione dei “neri” che, con la loro peculiare opacità, caratterizzano la pittura di Sironi degli anni ’40, si è associato, nell’immaginario dell’artista, il ricordo delle distruzioni di cui la capitale inglese fu oggetto nello stesso decennio: due tracce tematiche e visive tradotte da Baldan in un esito formale di particolare eloquenza, che invita a riflettere sulla caducità delle cose umane.
Nicola Galvan
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