Volti e non soltanto volti, dunque, quelli che dipinge, rivisitandoli nella memoria, Daniele Capecchi. Basterebbe indagare ognuna delle tipiche espressioni per rendersi conto della moltitudine di scenari interiori che insistono oltre la rigida apparenza fisionomica: itinerari intellettuali, emozionali, persino virtuali, riassunti in una effigie che indovini innervata da invisibili e misteriose scorie esistenziali.
Quanto di più meritorio caratterizza, nell’attualità, l’opera di Capecchi – ispirato pittore emergente – è, appunto, un irrequieto esercizio di scavo, condotto ove l’anima feconda il pensiero, che produce una salubre tensione creativa. Per questo non si capisce come, al cospetto di questi interessantissimi lavori, qualcuno abbia potuto parlare di iperrealismo: errore a tal punto palese da non meritare alcun dibattimento.
Capecchi, all’opposto, appartiene a quella nuova generazione figurativa, discendente di Munch, Rosai, Giacometti e Bacon, che certo sarebbe piaciuta a Testori: del tutto avversa a dare, della realtà, cosmetiche rappresentazioni, si salda intorno al meritorio tentativo di portare in superficie l’essenza ultima degli uomini come delle cose.
Questa, infatti, la viscerale urgenza espressiva che noi ritroviamo in alcuni toccanti ritratti di Capecchi – l’enigmatico Beckett, il prodigioso Borges, un meditabondo Pasolini –, risorti, diresti, in una dimensione altra dello spirito, nella quale il mondo è come visto al di qua di una immaginifica finestra. La pittura registra ed amplifica umori dissidenti: dove le campiture sono più estese, echeggiano gli stessi fremiti che avverti, a volte, sciogliersi lenti lungo la schiena; all’inverso, dove il colore, in piccole dosi e spazi minimi delimitati, si concentra, ecco fiorire altre recondite effervescenze, che fanno pensare, nella sorvegliata stesura dell’autore, ai pixel tecnologici.
Tra Clint Eastwood, una Desperate housewife con il volto di Marilyn Monroe, Keith Richards e Obama, Capecchi completa la propria galleria sentimentale, questo intrigante album di diversi e fra loro antitetici simulacri – il vecchio e l’infante, la pornostar e Samuel Fuller, l’aborigeno e Yukio Mishima –, aggiungendo chi, infine, proprio mancava: se stesso. Pensoso o adirato, sembra volerci suggerire: io sono anche questo. Il resto, con un talento pittorico che certo riceverà in futuro ulteriori attenzioni, è la sua asprigna poetica ad offrircelo in dono. Latente in quelli che sono improbabili silenzi così come più ermetici abbandoni.
Giovanni Faccenda
Firenze, gennaio 2011.
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