«Oltre la realtà» è lo sguardo che ognuno di questi artisti esibisce, declinandolo in modo personalissimo. Tuttavia la pluralità di visioni che caratterizza questa mostra è tale da permetterci di suddividere un tema tanto ampio e sfaccettato in diverse e più mirate prospettive, cogliendo alcuni punti di contatto tra le opere dei diversi autori e consentendoci di individuare quattro gruppi omogenei, partendo dal tipo specifico di realtà affrontata. Ovvero: una realtà evocata, una realtà giocata, una realtà sognata e una realtà trasfigurata.
Tale suddivisione, sia pure con un balzo ardito, può essere assimilata ai quattro tipi di «divina mania» descritti da Platone nel Fedro. La «divina mania» di cui parla il filosofo greco è quell’invasamento (quell’ispirazione, diremmo noi oggi) di un’anima pura da parte delle Muse senza il quale non si dà vera arte.
C’è da un lato la «realtà evocata» di Bracci, Briscese, Capelli, Doni, Simonelli, Sommaruga, Stazio e Domenici, che ci racconta con mezzi pittorici e plastici relativamente tradizionali, e attraverso colti riferimenti alle avanguardie storiche, una realtà intelligibile ma non convenzionale, poeticamente ricordata. Analogamente a quanto avviene nella «mania poetica» descritta da Platone, la sorgente dell’atto poetico-artistico risiede in questo caso nell’ispirazione offerta all’artista dalle Muse, figlie di Mnemosyne (la Memoria): il processo creativo è essenzialmente evocativo in quanto depositario di una memoria collettiva e condivisa che viene perpetuata nel presente e oltre.
Ognuno degli artisti sopra citati lascia scorrere quanto scaturisce dalle profondità di tale memoria nell’alveo della propria sensibilità e delle proprie conoscenze tecniche e teoriche, attraversando territori caratterizzati da precipui orizzonti artistico-culturali. Nella marchigiana Bracci e nel torinese d’adozione Briscese, ad esempio, è palese un ripensamento del retaggio proto-cubista in cui la scomposizione dei piani assume un afflato misteriosamente intimo, poetico, andando nella direzione di un superamento elegiaco della visione prospettica convenzionale della realtà.
Nell’emiliano Simonelli il riferimento è duplice: al Futurismo di Balla e Boccioni, da un lato, e all’Espressionismo di August Macke dall’altro, con una oscillazione tra slanci epici e vitalistici (nei Golem) e momenti di più pacato e intimo lirismo (nei paesaggi e nelle nature morte), a seconda dei soggetti.
All’Espressionismo di area tedesca si rifanno anche, in qualche modo, i milanesi Doni e Sommaruga: la prima ha luci decisamente mediterranee e una corsività libera e guizzante, capace di evocare con poche pennellate personaggi e situazioni; mentre il secondo affronta il genere “natura morta” con una certa originalità, accostando una tecnica antica (olio su tela) ad una sensibilità post-moderna nella scelta dei soggetti (sacchetti d’immondizia).
Il bergamasco Mauro Capelli e il bolognese Ivo Stazio, invece, contaminano una figurazione classica dal disegno rapido e sicuro con una gestualità energica e una ricca matericità spiccatamente informali, degne del miglior Fautrier. Anche in loro tuttavia, come in tutti gli altri compagni di specifica platonica «mania», le soluzioni tecniche, le citazioni stilistiche e i rimandi culturali non sono sfoggio di virtuosismo fine a se stesso, ma elementi strettamente funzionali ad una precisa necessità narrativa e aderenti all’aura poetica che promana dal soggetto evocato. Anche nelle sculture del viareggino Domenici c’è una reminiscenza classicheggiante nella scelta delle pose e nelle linee principali del modellato, che talvolta però sono bruscamente spezzate da faglie improvvise, fratture tettoniche che ne minano la rassicurante plasticità.
La «realtà giocata » di Baini, Butt, Drogo, Valensin, Stramacchia e Lo Giudice, è invece una realtà “messa in gioco” con mezzi pittorici e plastici inconsueti che attingono ispirazione o materiali da discipline artistiche “sorelle” come il fumetto (Stramacchia e Lo Giudice), l’illustrazione (Valensin e Baini) e il mosaico (Butt e Drogo).
Mentre nel caso del toscano Valensin l’immaginario del fumetto e dell’illustrazione è contaminato da citazioni modiglianesche, per il bresciano Stramacchia i fumetti sono materialmente l’elemento utilizzato per comporre le sue più o meno dotte citazioni: ritagli di pagine di fumetti, a cui vengono cancellati i testi e le figure, composti poi come tasselli di un mosaico a evocare altre figure.
E sempre una composizione a tessere di mosaico soggiace alle opere di Drogo e di Butt ma, mentre nel caso del pittore milanese il rimando palese è alle pennellate piatte di Cézanne che scompongono le forme e la luce sulla superficie del quadro, nel caso dell’artista pakistano il riferimento è ai mosaici e alle decorazioni delle moschee islamiche: egli utilizza quei segni stilizzati e astratti (piccoli cerchi concentrici di diversi colori e quadratini) come tessere o pixel colorati per comporre figure e paesaggi. Analogamente Baini utilizza la sua firma in un gioco di intrecci e sovrapposizioni, per far affiorare la silhouette di figure o la skyline di paesaggi urbani.
In ogni caso in tutti loro è evidente un approccio ludico, divertito e divertente che trova il suo apice negli assemblaggi pop di Paolo Lo Giudice, il quale utilizza pezzi smontati e smantellati di strumenti, oggetti d’uso quotidiano, elettrodomestici, motorini e quant’altro, per costruire i suoi buffi personaggi da cartoon.
In tutti questi casi la dimensione spontanea, istintuale e dirompente del gioco ci rimanda ad alcuni aspetti caratterizzanti della «mania telestica o rituale» descritta da Platone nel Fedro. Se pensiamo che l’ispiratore di questa «divina mania» è Dioniso, dio della liberazione degli impulsi vitali che conduce l’individuo al di là del confini dell’Io e dell’individualità, e se pensiamo all’analogia che questo concetto ha con la “fenomenologia del gioco” descritta da Gadamer – per il quale la nozione di gioco arriva addirittura a scardinare la metafisica della soggettività caratteristica del nostro tempo –, ci rendiamo conto di quanto questi artisti gettino il loro sguardo «oltre la realtà» e di come questo loro atto assuma, attraverso la dimensione ludica, un duplice carattere: emotivamente liberatorio e socialmente trasgressivo.
La «realtà sognata» di Carluccio, Pedotti, e per certi versi anche Grasso, è una realtà onirica, visionaria, insomma una realtà che per sua stessa definizione va «oltre» una realtà consueta, prevedibile o rassicurante. Questo ci permette di ricollegarci saldamente alla «mania mantica o profetica» di Platone, caratterizzata per l’appunto dall’ispirazione del profeta, ovvero colui che è capace di riportare alla luce il passato e di fornire intuizioni sul futuro. Questo tipo di «divina mania» scaturisce direttamente da Apollo e ciò comporta un’intima ricerca di purezza interiore, di equilibrio e di silenzio, elementi ben presenti nelle opere di questi artisti.
Da un punto di vista artistico-culturale, questi tre artisti oscillano tra Metafisica e Surrealismo: una sorta di Metafisica Astratta è quella del milanese Lucio Pedotti; un Surrealismo alla Magritte quello di alcuni quadri del romano Enrico Grasso; mentre si rifà ad un Surrealismo alla Dalì, con accenti primitivisti, la scultura del brindisino Giorgio Carluccio.
Infine, la «realtà sublimata» espressa da Ballerani, Grasso, Gualandris, Merghetti, Natali e Plevano è un tipo di realtà sottoposta ad un processo di trasfigurazione messa in risalto da un uso sapiente e spregiudicato del disegno e dagli accostamenti spiazzanti dei colori.
In Ballerani e in Plevano il disegno delle forme è abilmente stilizzato, fortemente e poeticamente ridotto all’essenziale. In Natali, Merghetti e Grasso vi è un calcolato equilibrio tra sintesi delle linee e ricchezza dei dettagli, mentre Gualandris perviene ad una sublimazione della realtà per una via più ardita, e cioè accostando a fiori o figure dipinte con maniacalità iperrealista lettere enigmatiche e chiazze di colore informale. In Grasso e Natali, poi, vi è un sottile e insinuante slittamento degli equilibri cromatici che, inavvertitamente, provoca una sorta di altrettanto sottile inquietudine. Viceversa in Gualandris, Plevano e Merghetti l’inusuale e spiazzante accostamento di colori è decisamente più vistoso e conclamato.
Il risultato, tuttavia, è analogo: ci troviamo di fronte ad una realtà che è, al tempo stesso, familiare e sconosciuta, consueta e tuttavia nascosta agli sguardi. Freud avrebbe utilizzato, per descriverla, l’aggettivo unheimlich: spaesante, perturbante. La forma della mania platonica che potrebbe presiedere a una simile trasfigurazione della realtà è quella definita nel Fedro «erotica», ovvero un’esperienza che pervade anima e corpo, la cui arché (o principio generatore del mondo) e il cui télos (o ciò che porta a compimento), congiungono il piano terreno e quello spirituale.
In questo senso, anche tutte le altre forme di «divina mania» hanno bisogno della «mania erotica», intesa come fervida passione, accecamento che s-vela, realtà incarnata e al tempo stesso condotta a sublimazione dall’ideale che la sostiene e le permettere di trascendere ad un piano più elevato: quello, appunto, dell’«oltre». Oltre il tempo consueto e matematico che condiziona le nostre vite quotidianamente; oltre una visione condizionata e condizionante impostaci dalla società; oltre una realtà abusata che logora gli animi e li rende ciechi dinnanzi ad essa.
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