oggi, l’ingordigia umana e la sua empietà stanno lentamente distruggendo quella natura che,
silenziosamente, dà tanto senza chiedere nulla in cambio se non il giusto rispetto e l’attenzione
necessaria alla sua salvaguardia.
Lo spazio in cui l’uomo vive la propria quotidianità e nel quale egli agisce non è mai neutro;
fu spazio di natura con tutto ciò che ne consegue, nel bene e nel male, finché l’uomo stesso non
ha cominciato ad incidervi i propri segni, i simboli del suo passaggio trasformandolo lentamente
a propria immagine.
Trasmette inquietudine sapere che, già nel 1920, Benedetto Croce, allora ministro, in una
relazione al Senato scrisse che nel nostro paese si sarebbe dovuto fare l’impossibile affinché si arginassero
“le ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note
e più amate del nostro suolo”.
A distanza di quasi un secolo da queste parole, l’impatto antropico ha raggiunto una velocità e
profondità di influenza senza precedenti. Gli effetti sono molteplici e stanno letteralmente cambiando
l’aspetto del nostro pianeta e del nostro vissuto quotidiano.
Partendo dal presupposto che la fotografia è stata, sin dalla sua invenzione, un modo specifico
di guardare e conoscere la realtà e il suo modificarsi, l’occhio attento di Danilo Donzelli coglie i
tristi dettagli di questi mutamenti inesorabili; e lo fa con un’arma spesso usata nella storia dell’arte:
l’ironia.Mi sembra calzante, a tal proposito, la definizione data al concetto di ironia da parte
dello storico Henri Morier che, nel suo Dictionnaire de poétique et de rhétorique del 1961, scrisse
che l’ironia è l’espressione di una persona che, animata dal senso dell’ordine e della giustizia, si
irrita dell’inversione di un rapporto che stima naturale, normale, intelligente, morale e che, provando
il desiderio di ridere a tale manifestazione d’errore o d’impotenza, la stimmatizza in modo
vendicativo, rovesciando a sua volta il senso delle parole o descrivendo una situazione diametralmente
opposta alla situazione reale. Il che è una maniera di rimettere le cose per il verso giusto1.Ed ecco, quindi, che il sipario si apre dinanzi agli spettatori ed essi iniziano il loro percorso in
quel Luna Park, in quel parco dei divertimenti nel quale a divertirsi è unicamente l’uomo senza
etica né morale, pronto a mortificare la natura per rincorrere i suoi interessi.
E allora quel golfo di Napoli osservato da lontano da una roccia con le fattezze di un profilo
umano sembra attendere, quasi rassegnato, l’ennesimo scempio; scempio che puntualmente si coglie
negli scatti successivi: il cemento che nasconde e cela l’orizzonte, un bellissimo cielo azzurro
la cui contemplazione è resa impossibile, ancora una volta, dall’agire umano; cartelli stradali abbandonati
nel verde e quel verde che riesce a convivere con essi, quasi abbracciandoli e facendoli
diventare una sua parte integrante.
Donzelli gioca con gli elementi compositivi delle sue fotografie; gli ossimori di significato e di
significante si schiudono negli elementi naturali: piante, arbusti, fiori, isolati e quasi decontestualizzati
dialogano, con sapiente maestria, con il cemento; stabiliscono con esso rapporti e rimandi
continui.
Gli scatti di Danilo Donzelli restituiscono immagini pregne di speranza: la natura sembra non
volersi arrendere alla brutture poste in essere dall’uomo; sembra continuamente cercare il modo
di non soccombere ad esse. Ma ogni sforzo sembra vano quando l’occhio dello spettatore si posa
sui colori sgargianti e carichi di gioia della betoniera che, immaginiamo, continua inesorabile a
girare, a produrre cemento, a innalzare muri, a costruire mostri che, senza alcuna pietà, faranno
della natura e del paesaggio il loro personale Luna Park.
“Il paesaggio – ha scritto Salvatore Settis – è il grande malato d’Italia. Basta affacciarsi alla
finestra: vedremo villette a schiera dove ieri c’erano dune, spiagge e pinete, vedremo mansarde
malamente appollaiate su tetti un giorno armoniosi, su terrazzi già ariosi e fioriti. Vedremo boschi,
prati e campagne arretrare ogni giorno davanti all’invasione di mesti condomini, vedremo
coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e palazzi senz’anima, vedremo gru
levarsi minacciose per ogni dove. Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili
colate di cemento”2.
Obiettivo ricercato da Donzelli è quello di ricostruire o evidenziare un legame tra l’opera
d’arte (la fotografia nel nostro caso) e l’ambiente; un legame capace di produrre una nuova visione
del paesaggio e, al contempo, di fornire gli strumenti per decodificarla e metterla in atto
nella quotidianità: i lavori in mostra percorrono, allo stesso tempo, il piano dell’etica e quello
dell’estetica; essi riescono a far coincidere nella loro compiutezza verità e bellezza. Gli scatti di Donzelli, mi sembra, riescano a fornire una nuova mediazione dialettica, citando Susan Sontag,
tra l’imperativo di “abbellire, che proviene dalla belle arti, e quello di verità […] che proviene
dalle scienze”3 dal momento che, prendendo in prestito le parole del fotografo Robert Adams,
“se la bellezza è il vero fine dell’arte, [...] la bellezza che mi interessa è quella della forma, sinonimo
della coerenza e della struttura sottese alla vita”4.
Del resto una fotografia ha sempre a che fare con la realtà di cui l’immagine che ne deriva è la
testimonianza; è la descrizione di un attimo senza il quale essa stessa cesserebbe di esistere; ed è
proprio quell’attimo, quel preciso momento nello spazio e nel tempo che dovrebbe contribuire a
modificare la nostra coscienza del mondo. Per Danilo Donzelli la fotografia è, dunque, un mezzo
insostituibile per fare “memoria visiva” dell’incidenza dell’uomo sul paesaggio e della sua ingerenza
sulla natura: è fotografia terapeutica intesa come strumento di riattivazione della percezione e
della sensibilità umana; è un dispositivo che oserei definire di discorsività visiva capace di intessere
legami e rimandi tra l’azione (l’atto di scattare una fotografia) e la narrazione (ciò che lo scatto
vuol significare).
Perché se è vero che “vedere è avere distanza”5 è proprio questa distanza che permette a Danilo
Donzelli, e quindi a chi si trova dinanzi ai suoi scatti, di guardare e rendersi conto che ci si avvicina
sempre più ad un punto di non ritorno.
Luca Palermo
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