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Ho conosciuto Emilio Isgrò alle 15,30 del 4 Febbraio 2014 alla Villa di Celle.
Il tempo era piovigginoso e avevo messo le scarpe sbagliate. Isgrò, di cui conoscevo già il lavoro, è stato molto cordiale e simpatico.
Lo credevo più antipatico.
Questa mia (volutamente giocosa) testimonianza si aggiunge virtualmente alle 327 de L’avventurosa vita di Emilio Isgrò – nelle testimonianze di uomini di Stato, artisti, scrittori, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini che hanno permesso di creare una biografia allegorica di un uomo, un artista, un poeta e un drammaturgo fra i maggiori esponenti dell'arte d'avanguardia e della sperimentazione culturale degli anni '60 e '70 e protagonista della scena artistica nazionale e internazionale contemporanea. 327 testimoni con cui si era identificato Isgrò stesso, in un gioco empatico di rimandi infiniti, che utilizza abilmente per smarcarsi dai processi di omologazione e codificazione. Tentava forse di affermare l'impossibilità di qualunque definizione, seguendo il foucaultiano “Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso”?
Il fulcro della sua riflessione è incentrato sull'essere e il non essere, sui problemi del determinato e dell'indeterminato, sull'efficacia e inefficacia dell'atto creativo. Sembra proprio che il non essere sia la caratteristica fondante del personaggio Isgrò, che dimostra, attraverso il suo comportamento e linguaggio, che non c'è più spazio per l'artista in un mondo e in una cultura in cui l'immaginario è diventato sterile e in cui si cancellano con leggerezza la memoria dell'esperienza e le tracce della comunicazione. Questo testo mostra che la rinascita avviene scoprendo l'uguaglianza tra oggetti e parola. Una rinascita concettuale, nel senso hegeliano di concetto, come tempo della cosa, come ciò che fa sì che la cosa sia là pur non essendoci. Ecco che ci troviamo nella stessa ambiguità semantica del paradosso stoico del “Carro”, che può essere ricostruito così: “Ciò che tu dici passa per la tua bocca, ma tu dici ‘carro', dunque un carro passa per la tua bocca” (Diogene Laerzio 7, 187). Ecco che siamo anche noi in bilico a riflettere sulla distinzione tra significato e significante, fra parola e immagine, tra la verità proposta e l'inganno sotteso, tra la suggestione del segno e l'armonia del suono e l'ambiguità sbalestra problematicamente il nostro intelletto.
Se per gli stoici, come, a grandi linee, per tutta l'antichità classica, la teoria del segno linguistico veniva tenuta distinta dallo studio del segno logico, collegando la parola a un meccanismo di equivalenza, solo con Agostino D'Ippona anche la parola verrà collocata all'interno di una più generale teoria del segno, che lo individua come “una cosa che, oltre all'aspetto sensibile con cui si presenta, porta a pensare qualcosa di altro a partire da sé.” (De doctrina cristiana I.1.1). Procediamo perciò oltre i sofismi semantici e seguendo questo percorso ci troviamo davanti al segno vero e proprio, all'aliquid stat pro aliquo dei filosofi medievali e ad interrogarci sulla relazione che lega qualcosa di materialmente presente (l'opera, il testo, etc...) a qualcos'altro di assente. Ogni volta che riflettiamo su questo o ci facciamo guidare in questo processo, attiviamo una relazione di significazione che è il presupposto fondamentale per i concreti processi di comunicazione. Ma l'arte porta in sé qualcosa di più, che va oltre questo tipo di rapporto e che la distingue dall'universo dell'informazione di massa: un intervallo di incomunicabilità che la rende indefinibile.
Isgrò fa coesistere la sfera del visivo e del verbale, mettendo quasi in lotta la parola con l'immagine e attraverso inediti percorsi visivi e intellettivi, concretizza visivamente l'atto mentale. Attraverso il gesto del cancellare riesce ad ignorare l'aspetto oggettuale delle parole, per far risplendere la loro essenza che si rivela. E' come se facesse emergere l'a-lingua del linguaggio, descritta da Lacan come quel quid enigmatico che rappresenta l'aspetto non linguistico del linguaggio e che insieme alla lingua, o quid corporeo, costituisce il linguaggio stesso. Questo ci restituisce l'incompletezza del segno iconico e l'inevitabile dualismo semiotico che porta con sé. Isgrò riesce ad affrancarci dal linguaggio irrigidito da assunti riconosciuti come inviolabili, attraverso la sua riflessione artistica, espressione di una sensibilità peculiare, che propone canali alternativi attraverso cui ricercare altre libertà.
Con crudeltà gentile e deliziosa impertinenza, osserva, tra ironia e paradosso, questo nostra epoca soffocata dalla superficialità e dall'indifferenza, e come convinto fautore del vantaggio dell'arte sulle politiche opportunistiche della cultura mondiale, mette in atto le sue cancellature con lo scopo di realizzare l'idea di libertà che l'arte ha il dovere di perseguire e per affermare l'utopia di un altro linguaggio, di altre realtà. Isgrò stesso dice che “In ogni caso, chiunque opera e chiunque sceglie, cancella. Cancella delle cose per privilegiarne altre. Il destino, la sorte o gli scrittori, privilegiano tutti una cosa al posto di un’altra. A volte si viene scelti dai materiali. La cancellatura non ha niente a che vedere con l’atteggiamento moralistico del censore e questo vale sia quando cancello le parole dei libri sia quando agisco sulle immagini della comunicazione mediatica, riportando la scrittura alle sue origini pittografiche.”
Questo distanziamento critico attraverso cui ci conduce, affonda nel nostro io e ci fa attraversare opposti estremismi in uno spazio che elude la necessità del significato. Perché quello che interessa è il puro interrogare ed interrogarsi, per trovare e stabilire i criteri di una comunicazione nuova, dotata di una diversa potenzialità.
Grazie a Isgrò siamo dunque qui a camminare sui lati opposti di una superficie che sono in realtà contigui, come sulla superficie non orientabile del nastro di Moebius. Una superficie che ha un solo lato e un solo bordo e attraverso cui è possibile passare da un lato all'altro senza attraversare il nastro e senza saltarne il bordo, ma solo camminando sulla superficie stessa. Camminando e interrogandoci sull'ambiguità e sui meccanismi che legano i rapporti, dopo aver percorso un giro ci si trova sulla parte opposta e solo dopo due ci troviamo sul lato iniziale. Un camminare infinito e contraddittorio, nuovo e indefinibile che rappresenta un perfetto paradigma di ciò di cui abbiamo parlato fino ad ora.
Curiosamente ho notato che il nastro di Moebius è stato anche il soggetto di alcune xilografie di Maurits Cornelis Escher, che lo rappresenta con le formiche che si rincorrono sopra, le stesse formiche che ritroviamo inondare simbolicamente alcune opere di Isgrò: api, formiche, farfalle che come i filosofi trasportano e intrecciano i semi della conoscenza. Ecco che forse sono arrivata in qualche modo ad un punto, seguendo la mia necessità di trovare sempre una motivazione, una risposta, seppure travestita e arricchita dal decoro dell'immagine, alle urgenze dell'immaginario. Un Ulisse marpione e camaleontico mi ha chiarito perché le formiche si rincorrono sul nastro di Moebius.
A.F.
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