Nel 2011 il regista Lech Majewski, ispirandosi al dipinto del 1564 “Salita al Calvario” del pittore fiammingo Pieter Brueghel il Vecchio, dirige il film “I colori della Passione”. L’impianto dell’opera si costruisce sul saggio The Mill and the Cross del più grande contemporaneo conoscitore di Brueghel, lo storico d’arte Michael Francis Gibson.
Ciro Palumbo rimane emotivamente colpito dalla visione fortemente pittorica del regista che, attraverso fondali sovrapposti a riprese in ambienti reali, attua una magistrale scomposizione del dipinto di Brueghel.
Da questa suggestione nasce in Palumbo il desiderio di approfondire lo studio della poetica del pittore cinquecentesco e da questo punto di partenza nasce la serie di opere “i MULINI di DIO”, una sua personale visione filosofica della parabola umana che, come una ruota, gira e si ripete nel tempo. Cambiano i soggetti, cambiano i tempi, ma la storia umana pretende, sempre e comunque, il sacrificio di un capro espiatorio per peccati che reputa non suoi. Tutto questo sembra avere origine da una fede spesso non risolta e in perenne conflitto con le ragioni del cuore e gli inganni della mente. Ciro Palumbo fa proprio questo dramma e ricompone le tavole come in una Via Crucis dove la ricerca di un’armonia con il Divino, inesorabilmente si scontra con il cedimento dell’animo umano di fronte al dolore e al mistero della morte. L’artista, mentre è consapevole dell’inesorabilità ciclica di questo dramma umano, indica per se stesso e per noi, il percorso e la speranza di una possibile salvezza. La Mostra “i MULINI di DIO”, presentata a Nola (NA) nell’ottobre del 2014, prosegue il suo viaggio nella città di Matera per approdare poi a Firenze. In ciascuna di queste sedi l’occasione di una più approfondita riflessione del viaggio pittorico già intrapreso con l’aggiunta di nove opere a olio, sia su carta che su tela.
La mostra a Matera diventa “I MULINI DI DIO - è stato scritto”
A Matera che è terra di luce e di pietra che quasi si creano l'una dall'altra. La pietra bianca calcarea che è montagna, ma anche cavità, il Sasso che diventa ventre materno e che accoglie la vita: una città-pietra che è anche città-croce, scelta inoltre da registi come Pier Paolo Pasolini e Mel Gibson per ambientare il dramma della Passione in film divenuti celebri.
Ciro Palumbo presenta opere con intense tonalità di colore bianco sotto il sole ferocemente antico della Gerusalemme italiana: il destino dell'uomo, il dramma del dolore e il desiderio di salvezza qui si uniscono con il bianco simbolico della pietra e della luce, fondendo in maniera armonica l'idea concettuale con quella del simbolo che rievoca la memoria. Ed il bianco è colore simbolico per eccellenza, assenza di colori, perché li inghiotte tutti in sé, è considerato luce e simbolo della spiritualità e della trascendenza in tutte le culture, e interpretato, secondo l'Apocalisse di Giovanni (7, 13-14), come il colore della purezza ottenuta col sacrificio fino al martirio.
La mostra “I MULINI DI DIO - è stato scritto”
È stato scritto: che la verità non è mai nuda ma è sempre celata nell’evidente.
Ciò che “è stato scritto” è forse il destino dell'uomo, che si ripete incessante, il destino del sacrificio umano che chiede le proprie vittime, per continuare a mantenere il suo equilibrio ancestrale. Quello che “è stato scritto” appartiene alle narrazioni della Passione dei vangeli canonici (ma anche di quelli apocrifi), come appartiene alla ciclicità del destino umano, al mondo in cui tutto ritorna o in cui tutto in una mobile, ricorrente eternità resta uguale a se stesso, e che richiama il concetto di “pasta sfoglia del tempo” teorizzato da Hans Magnus Enzensberger, secondo cui il tempo (e la storia) trova la migliore rappresentazione della sua complessità e commistione attraverso il paragone con la pasta sfoglia e il suo caratteristico sovrapporsi di strati, in cui non esiste un “nuovo”, perché “ciò che di volta in volta rappresenta il nuovo è solo un sottile strato che galleggia su insondabili abissi di possibilità latenti”.
I MULINI DI DIO
è stato scritto
mostra di Ciro Palumbo
a cura di Alessandra Frosini e Stefano Gagliardi
24 aprile - 7 maggio 2015
Ex Ospedale San Rocco
Piazza San Giovanni Battista, Matera
Vernissage: venerdì 24 aprile alle ore 18
Ex Ospedale San Rocco
Conferenza-Dibattito con Lech Majewski (regista): sabato 25 aprile alle ore 15.30
Sala conferenze dell’Ex Ospedale San Rocco
Mio testo presente in catalogo:
I MULINI DI DIO di Ciro Palumbo
è stato scritto
Dalla capacità di sguardo dell'artista, da un disvelamento o forse, ancor più, da una rivelazione: da qui nasce l'opera, che non è frutto della vita o della storia, ma solo dell'arte stessa. L'artista che crea indaga il pensiero partendo dalla centralità della relazione che c'è tra cosa e immagine, tra passato e futuro, tra autore e fruitore e tra finzione e realtà.
Nel film I colori della Passione di Lech Majewskij, suggestione da cui parte la serie di opere “I Mulini di Dio” di Ciro Palumbo, il ruolo dell'artista creatore è ben delineato attraverso la figura di Bruegel rappresentato, con continui passaggi fra "realtà" e immaginazione creativa, mentre studia la composizione e la vive, dando corpo alle sue immagini, partecipando alle vicende che vi si svolgono e prefigurandone gli sviluppi. Questo è il punto di partenza per una riflessione nella riflessione che indaga il ruolo e il valore dell'artista e dell'arte stessa e del cinema che racconta se stesso. Ecco che il gioco di rimandi continui, di simbologie nelle simbologie, il gioco di scatole cinesi vertiginoso, amplifica lo studio delle potenzialità evocative del mezzo espressivo, sia esso l'arte o, appunto, il cinema. Ecco allora un pittore demiurgo e un cinema (un regista) che plasmano e guardano la loro opera, come Dio che osserva da fuori il mondo che ha creato, come il mugnaio che guarda dall'alto, dal mulino sulla roccia, il destino degli uomini, e un altro artista, Palumbo, che crea sogni dipinti in un ininterrotto sovrapporsi di livelli e in un gioco di rimandi tra reale e surreale, con la libertà di una poesia moderna. E quel clima di straniamento continuo che pervade la pellicola fa eco nelle opere di Palumbo, che indagano quel mulino distante, che poggia alto sulla roccia, che noncurante delle vicende che si stanno compiendo sotto di lui, continua a macinare grano, il grano del destino del grande mugnaio del cielo. E' un mulino simbolico che macina un destino che tormenta l'uomo come tormenta il redentore nella sua doppia natura, una passione tragica condivisa dall'uomo e dal Cristo che cerca di sottrarre al padre il destino dell'uomo.
Questa è la seconda tappa del ciclo de "I Mulini di Dio", che vede al centro della riflessione opere di notevole intensità pittorica potenziata dal significato simbolico del colore bianco e della sublimazione della luce. Ci troviamo nella fase del percorso (percorso concreto-logico e simbolico allo stesso tempo) in cui il processo di astrazione è giunto al mulino. E' un' astrazione intesa quindi nel suo significato filosofico classico, di procedimento attraverso cui viene isolato un elemento da tutti gli altri ai quali era connesso, che diventa oggetto su cui si concentra la ricerca, un metodo logico per ottenere concetti universali ricavandoli dalla conoscenza sensibile di oggetti particolari.
Siamo a Matera e non è un caso che questa fase venga accolta ed esposta in questa città. Matera è terra di luce e di pietra che quasi si creano l'una dall'altra. La pietra bianca calcarea che è montagna, ma anche cavità, il Sasso che diventa ventre materno e che accoglie la vita: una città-pietra che è anche città-croce, scelta inoltre da registi come Pier Paolo Pasolini e Mel Gibson per ambientare il dramma della Passione in film divenuti celebri. Perché la cultura umana necessariamente non può che confrontarsi con il pensiero del destino e dunque riflettere sulla vicenda della croce e dell'uomo. Ecco perché proprio a Materia si colloca questo momento del percorso, sotto il sole ferocemente antico della Gerusalemme italiana: il destino dell'uomo, il dramma del dolore e il desiderio di salvezza qui si uniscono con il bianco simbolico della pietra e della luce, fondendo in maniera armonica l'idea concettuale con quella del simbolo che rievoca la memoria. Ed il bianco è colore simbolico per eccellenza, assenza di colori, perché li inghiotte tutti in sé, considerato luce e simbolo della spiritualità e della trascendenza in tutte le culture, e interpretato, secondo l'Apocalisse di Giovanni (7, 13-14) come il colore della purezza ottenuta col sacrificio fino al martirio. Stiamo in fondo osservando una via crucis che si svolge sotto i nostri colpevoli occhi e stiamo percorrendo una strada fatta di passaggi e di eterni ritorni, una strada che è anche, paradigmaticamente, percorso di mostra.
Un percorso suddiviso in tappe comprende il concetto di continuità, che non significa tuttavia ritorno, ma piuttosto sviluppo, apertura verso nuove prospettive. Ad ampliare l'orizzonte del discorso, ad attraversarlo, interviene qui Palumbo con visioni inattese ed enigmatiche per offrire una sua personale visione filosofica della parabola umana che, come una ruota, gira e si ripete nel tempo.
Ciò che "è stato scritto" è forse il destino dell'uomo, che si ripete incessante, il destino del sacrificio umano che chiede le proprie vittime, per continuare a mantenere il suo equilibrio ancestrale. Quello che "è stato scritto" appartiene alle narrazioni della Passione dei vangeli canonici (ma anche di quelli apocrifi), come appartiene alla ciclicità del destino umano, al mondo in cui tutto ritorna o in cui tutto in una mobile, ricorrente eternità resta uguale a se stesso, e che richiama il concetto di "pastasfoglia del tempo" teorizzato da Hans Magnus Enzesberger, secondo cui il tempo (e la storia) trova la migliore rappresentazione della sua complessità e commistione attraverso il paragone con la pastasfoglia e il suo caratteristico sovrapporsi di strati, in cui non esiste un "nuovo", perché "ciò che di volta in volta rappresenta il nuovo è solo un sottile strato che galleggia su insondabili abissi di possibilità latenti1".
Del resto tempo, spazio e numeri sono le sole possibili astrazioni attraverso cui la mente umana può avvicinarsi alle leggi naturali e da esse può procedere contraendo il mondo esterno nei segni, come sistemi che rinviano ad un contenuto, come uniche espressioni di un linguaggio universale, compenetrato dal senso enigmatico delle cose. E i segni che Palumbo dissemina nei quadri rimangono segni condivisi di cui ognuno può ricercare una logica, perché specchio della quotidiana riflessione sull'esistenza.
Così l'opera diviene la scenografia di un repertorio vasto, che prende le mosse nell'universo di Palumbo nelle suggestioni provenienti da De Chirico, Savinio e Magritte, come dal simbolismo di Böcklin e Klinger, per giungere, in un gioco di forze centripete e centrifughe che passano dall'incastro alla deflagrazione, a qualcosa di assolutamente nuovo in cui l'enigma nutre e dà forza all'essenza. E la finzione diviene allegoria della natura illusoria della vita e di una conoscenza che per l'artista può avanzare solo per improvvise illuminazioni, ravvivando lo spirito con l'ausilio di rimandi diversi. La dimora di quest'immagine pensata, quel luogo silenzioso dove tutto nasce è il disegno fermato dall'artista con matite acquarellabili e poi con acrilico, sulla tela preparata con più strati a gesso, un disegno che resta a governare dietro le quinte (insieme ad alcune frasi e riflessioni che si aggiungono ad esso, direttamente sulla tela) la rappresentazione. A questo segue la stesura del colore in cui riprende luci e ombre, aggiunge e toglie e poi le successive velature a bitume e le lumeggiature per far vivere con la luce. Un processo che è anch'esso un percorso, fatto di soste, di tempi di riflessione e approfondimento, un turbinio di movimentazioni estraneo a certa pittura estemporanea che si brucia nell'attimo nella realizzazione.
I segni vengono inseriti nei dipinti seguendo il punto di vista con il quale l'artista li ha osservati, uno sguardo metafisico su un mondo di oggetti fisico, tradotti in una pittura che non è né figurativa né astratta. Ecco che il desiderio di sintesi attraverso segni e simboli pervade anche gli elementi che sono le mete del percorso "I Mulini di Dio": tutto quello che prima faceva parte di una struttura e di un sistema, ora si mostra solo come elemento, un passaggio alla volta, un segno alla volta.
E i mulini di Dio appaiono mutarsi e aprirsi a noi.
Si vede fra di essi il mulino che crea energia dalle sue pale che sulla cima della roccia impervia sembra voglia tentare un volo, utilizzando le pale quasi come ali. Un volo che potrebbe rivelarsi catastrofico ma che rende ragione della salita faticosa, una salita verso l'alto che ha tutto il sapore di una preghiera. Perché per arrivarci la salita deve essere compiuta nel ventre della montagna (così si intuisce nel film), in questa condizione architettonica surreale si scorge una metafora del senso dell'ascesa che nel momento culmine ci accorgiamo non essere sufficiente perché quello di cui necessitiamo è un volo: è il paradigma del cammino incessante, che non arriva mai perché smetterebbe di essere una ricerca e un afflato, uno slancio, per non essere più nulla.
Gli spazi allora si aprono come un abisso e testimoniano la vertigine della salita e del volo, le nubi si addensano o sono del tutto assenti, mentre i sassi ci mostrano la sostanza delle cose, porgendoci punti di vista estremi, aprendosi e sollevandosi (Nel bianco, nella luce e nel nulla; Lassù; Lassù dove volano i pensieri).
Ma il vento non riesce a muovere le pale di marmo di mulini pietrificati, immobili come un momento e come un ricordo. Mulini bianchi di luce e di materia, diventati di gesso o di pietra o di marmo, che emergono dalla roccia e sembrano scolpiti in essa o la abitano, o in dialogo con elementi rocciosi indicatori, quasi pietre miliari (Monolite), in equilibrio su prosceni anch'essi di pietra che nascondono e fanno intravedere una dimensione altra, creando un gioco surreale e contraddittorio. Siamo posti davanti a più realtà (o finzioni) o siamo noi che cerchiamo e siamo più realtà?
Siamo spettatori e attori (con Palumbo) mentre guardiamo questi prosceni che mostrano le cose, costruiscono lo spazio e il tempo, creando il dentro e il fuori, il prima e il dopo, il qui e l' altrove. Le costruzioni che allestisce sono spazi teatrali di cui l'artista stesso si serve, adottando il punto di vista della platea teatrale o dell'attore recitante, mettendo in scena l'angoscia, il pensiero e le proprie riflessioni, guardando e lasciandosi guardare. Spazio e tempo vengono ad annullarsi perché vediamo nello stesso momento e in uno stesso spazio una cosa piuttosto che un'altra e siamo in due, tre mondi, tre parallelismi, tre sentimenti, tre modi di sentire.
In Visioni questo concetto è esplicitato e portato alle estreme conseguenze: il mulino ha abbandonato la pietra dov'era arroccato e la guarda beffardo da un'altra dimensione, gravitando aereo su uno sgabello posto davanti al quadro da cui lui stesso proviene. Il luogo della consapevolezza della roccia ferma è ormai svanito, tutto è stato decostruito, vediamo addirittura le macine abbandonate (La salita; Dimenticanze) e le parti del mulino che ormai non esistono più se non in frammento e l'estrema conseguenza di questa fase non può che essere una "sollevazione" in cui l'anima prende spazio. Drappi sospesi accompagnano o fasciano allora la pietra che era parte del mulino, che perde la gravità della materia e si fa evanescente verso la luce, per affrontare una trasformazione che non è un trapasso, ma un'elevazione verso un livello superiore, per simboleggiare l'avvicinamento a Dio o il raggiungimento di una più piena consapevolezza di se stessi. Molti dei segni vengono immortalati in questa elevazione che li rende icone di un'arte interiore e cerebrale capace di esprimere sensazioni estremamente moderne. I simboli della passione si uniscono alle pietre iconizzate e a fogli sospesi come atti poetici e compongono scene di un equilibrio meditato e raffinato, in cui il rapporto con l'antico e la tradizione si presenta anche come centro della riflessione sulla bellezza, rinnegata da tanta arte contemporanea. E se è presente la volontà di affrancarsi dai clichés della tradizione cristiano cattolica (la pietra menhir con incisioni primitive di Segni) in un superamento che è anche richiamo a concetti arcaici universali, viene sempre ricercata e assimilata quell'aura di bellezza che permette alle opere di affascinare lo sguardo con grazia e discrezione, per ammirare la sapienza della memoria e del linguaggio, per sentire il mistero di certi fenomeni dei sentimenti.
Nell'Ultimo atto la trasformazione giunge alla sublimazione, con il segno per eccellenza, il pane- corpo di Cristo che si solleva nell'assoluto del cosmo con un drappo, basamento da cui si è separato, come una sindone che lo accoglieva e avvolgeva, resa candida col sangue dell'Agnello2
Lo sfondo con la luce lunare richiama lo sguardo e focalizza l'attenzione sull'attimo, l'istante in cui si compie l'azione, nell'eternità di un momento che mette in scena l'esistenza di un mondo che rimane ermetico ai nostri occhi, accentuando l'antitesi fra esistenza fisica e sguardo metafisico.
Ed è in questa sintesi che la pittura trova il senso costitutivo unico della materia che ci consegna, lasciando il dialogo ancora aperto per indagare l'enigma della vita, distillando eternità da un momento passato.
Alessandra Frosini
Alessandra Frosini
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