I nomi racchiudono un destino?
Forse nel caso di Luca De Silva si può dire che accidentalmente sottolineano e dichiarano un'attitudine selvatica istintiva, che si declina in tematiche ricorrenti e fondanti. Del resto se i rami crescono tentando di occupare il cielo intero, le radici non abbandonano mai la terra dove sono nate, trovando nutrimento costante che diventa memoria, emanazione e nucleo primigenio di noi stessi.
Quest'ultima fase della ricerca di De Silva, iniziata circa alla fine degli anni Novanta, seguendo un richiamo probabilmente presente da sempre nel lavoro dell'artista, sicuramente fin dagli anni Settanta (si ricorda a questo proposito la performance Io sono l'albero del 1979), quando si fa palese in lui l'interesse per la visione di un mondo antropologico legato principalmente alla ritualità e poi alla mitologia primitiva. E' una visione che, partendo dall'impegno dell'artista di fare arte come viaggio iniziatico per capire il senso delle cose e testimoniare il senso della propria esistenza, mettendo in relazione il proprio io con l'esterno, costruisce una percezione filtrata dalla cultura antropologica-mitologica e sciamanica.
Nella serie di installazioni pensate per l'orto Botanico di Siena si ritrova ogni aspetto di questa riflessione, in un connubio perfetto e naturale con un luogo che è costruzione e documentazione di alcuni aspetti selvatici della natura. Un ventre materno che accoglie, un passaggio-paesaggio entro cui tutto si dischiude e tutto nasce e si crea in un equilibrio ricreato, in cui convivono artificio ed estrema naturalità. E' un percorso inteso da De Silva come sentiero per la conoscenza di se stessi attraverso una simbologia che intende risvegliare l'immaginario e la memoria inconscia più profonda.
All'interno di queste manifestazioni simboliche hanno un ruolo fondamentale l'albero come unione di cielo e terra e la natura come energia, come mana e Grande Madre.
L'albero è l'asse che unisce dimensione terrestre e celeste, ne rappresenta lo scambio e l'intima necessità di completamento ed è anche per il suo accrescersi metafora del percorso come processo di crescita ed evoluzione e quindi d'identità, nel perenne rinnovarsi della vita. L'unione degli opposti richiama necessariamente l'unione alchemica, la ricerca dell'uomo del ricongiungimento con la sua natura spirituale. L'albero porta inoltre con sé anche il riferimento al femminino sacro come principio fondante del mondo, la Grande Madre come principio originario immanente in tutte le cose, sinonimo di creazione e nutrimento, dea che ha poi trovato nel tempo e nello spazio nomi diversi (Nana, Ishtar, Demetra, Cibele, Iside e molti altri fino alla Vergine Maria), ma che ha mantenuto sempre un ruolo fondante. Una sorta dunque di epifania del sacro che nasce dalla terra e indica il cammino iniziatico dell'anima, un segno presente e passato che è sempre stato e che si ritrova, come afferma James Hillman, come “anima dei luoghi”, come interiorità celata da scoprire, sacralizzare e proteggere.
Nell'approccio del Selvatico Sensibile riemerge quindi la visione contemplativa della natura come cosmo vivente relazionale in simbiosi simbolica con la cultura, come fonte inesauribile che si rinnova da millenni e che proprio nell'arte trova la sua interpretazione più naturale della realtà impermanente.
Citando De Silva, si può affermare perciò che “L'artista è solo colui che, come l'alchimista, trasforma la materia per trasformare la propria anima, la propria psiche”, in un cammino filosofico che oltrepassa il tempo della vita e ci spinge dentro le cose, per ricercare una finalità senza scopo.
Alessandra Frosini
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