Come nelle opere dipinte tra XVI e XVII secolo raffiguranti l'ultima cena, dal Ghirlandaio a Leonardo, dal Veronese, all'Allori, al Bassano, come nelle nature morte manieriste e barocche, quello che vediamo è una tavola ricolma di oggetti. Ma i tredici posti apparecchiati sono vuoti e Cristo e gli apostoli sono enigmaticamente assenti: il cenacolo è diventato a tutti gli effetti una natura morta che richiama la fragilità e la caducità del mondo dei sensi. Perché tutto è bloccato e irrigidito in una materia dura come pietra e bianca come il marmo, dalla tovaglia ai piatti, dal pane all'uva, ad eccezione solo delle bottiglie e delle coppe trasparenti che richiamano i cristalli seicenteschi, utilizzati nelle nature morte per creare un ulteriore risalto al rilievo luministico, riflettendo e raddoppiando sia la scena raffigurata sia inserendo il pittore stesso, come riflesso, all'interno del quadro.
Fresu in questa sua Ultima Cena da' corpo all'universo invisibile del nostro immaginario, della nostra memoria e cultura, in un mutuo gioco fra visione e pensiero in cui è abbandonato l'intento di ammonimento moraleggiante della vanitas o del memento mori, come anche è rifiutato il riferimento alla quotidianità del sacro dei cenacoli o della sacralità nel quotidiano delle nature morte dei maestri riformati. Richiama piuttosto la perfezione naturalistica e illusionistica del trompe l'oeil, che non è imitazione o riflesso del reale, ma rinvio a se stesso, che cattura lo sguardo in un'apparenza che sorprende e affascina perché sembra essere presente, nell'illusione di una realtà più reale del vero.
La vertigine dell'illusione appare però qui conquistata e rifiutata per parlare d'altro, per agire nella direzione di un'esautorazione del reale attraverso le sue apparenze, in cui vita e morte convivono perché momenti dello stesso processo del divenire in un'eterna metamorfosi. Le cose si mostrano come simboli dietro lo schermo della materia in una situazione in bilico in cui la natura è morta e allo stesso tempo è viva perché appartiene a quel lampo della nostra esistenza.
Qui il concetto di natura morta viene sublimato: la vanitas, la morte, la bellezza come caducità e apparenze vengono riprese, ma la percezione degli oggetti-simulacri che l'opera contiene in sé, indistruttibili nella loro ostinata presenza, sono soggetti ad una metamorfosi che sembra collocarli simbolicamente in uno spazio simile al “doppio regno” di Rilke, sospeso tra vita e morte, dove le forme perdono la loro consueta rigidezza per mutare l'una nell'altra attraverso modulazioni impalpabili. E' un'esplorazione delle dimensioni profonde del nostro Io, un'immersione nella totalità originaria in cui si compie una trasfigurazione nell'invisibile, un'interiorizzazione che trasforma le cose in ricordi e dunque in memoria e che ci libera dalla separazione soggetto-oggetto, per attuare un superamento e sconfinare nello spazio del linguaggio che è luogo di manifestazione dell'essere.
Così, con duttile fluidità ci allontaniamo dal visibile per addentrarci nell'interiorità, nella consapevolezza dell'inesorabile mutare della consistenza e durata delle cose e degli uomini che soggiornano in esse, in una “metafisica della morte che è complementare ad ogni ontologia della vita”1 e in cui l'Arte diventa techné dell'esistenza.
Alessandra Frosini
1 M. Vozza, Esistenza e interpretazione. Nietzsche oltre Heidegger, Roma, 2001.
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