dal 17 dicembre 2015 al 15 gennaio 2016
Galleria Il Bisonte, Firenze
Salvator Rosa (Napoli, 1615 – Roma, 1673), uno dei massimi esponenti del Barocco partenopeo, fu pittore, incisore e poeta. “Genio stravagante”, personaggio polemico, scomodo e controcorrente, fu apprezzato come pittore di paesaggi dalla selvaggia bellezza e di battaglie e grazie alla circolazione delle sue stampe e delle sue celebri “Satire”in terzine, ebbe una notevole fortuna anche in Germania e in Inghilterra. Artista eclettico e maestro precursore di quella dimensione che caratterizzò la temperie culturale preromantica, trascorse la sua vita fra la natia Napoli, Roma e Firenze e molti artisti si ispirarono alla sua pittura. Il suo forte spirito critico, la sua libertà di pensiero e la sua arte, in contrasto con il conformismo del suo tempo, alimentò il mito di Salvator Rosa, artista ancor oggi modernissimo.
A 400 anni dalla nascita, viene celebrato con questa mostra che vede affiancate ad undici sue incisioni di grande formato i lavori di alcuni dei più importanti incisori contemporanei: Rodolfo Ceccotti, Jakob Demus, Paolo Ciampini, Roberto Stelluti, Èrik Desmaziéres, Livio Ceschin, Claudio Olivotto, Toni Pecoraro, Mario Scarpati, Patrizio Di Sciullo, Franco Anichini, Lanfranco Quadrio, Agostino Arrivabene, Safet Zec, Giorgio Roggino, Andreina Bertelli e Vincenzo Gatti. Molte delle incisioni contemporanee fanno parte della collezione della fondazione Il Bisonte, mentre altre sono state gentilmente date in prestito dagli autori stessi.
GALLERIA IL BISONTE
Via San Niccolò 24/r, Firenze
INFORMAZIONI
055 2342585
gallery@ilbisonte.it - www.ilbisonte.it
ORARIO
Dal Lunedì al Sabato ore 9 - 13 e 15 - 19
Sabato e Domenica chiuso
INGRESSO LIBERO
UFFICIO STAMPA
Duccio Mannucci – duccio.mannucci@gmail.com
Cell. 333 2226171
In collaborazione con ArTodayEvents e col patrocinio dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze
http://alessandrafrosini.blogspot.it/
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Salvator Rosa e la tradizione incisoria contemporanea.
Il Democrito in meditazione, acquaforte del 1662 della serie delle grande stampe di Salvator Rosa, mostra il filosofo greco di Abdera in Tracia (460-370 a.C. ) fondatore dell'atomismo e noto come filosofo “ridente” per le tesi della sua Etica, in cui concepiva come interesse maggiore dell'uomo la felicità, da raggiungersi attraverso una moderata cancellazione della paura.
Salvator Rosa lo raffigura, rifacendosi ad una lettera apocrifa di Ippocrate a Damogete, meditabondo davanti ad un libro (presumibilmente la sua opera sulla natura) in una scena di morte, fra le rovine di un cimitero, circondato da carcasse di animali e da alberi frondosi espressione di una natura dalla bellezza selvaggia, in cui l'unico essere in vita è una civetta, posta in cima al muro a sinistra. Nel cartiglio in basso viene riportata la frase "Democritus omnium derisor, in omnium fine defigitur" (“Democrito che irride ogni cosa viene qui fermato dalla fine di ogni cosa”), che Rosa costruisce unendo Seneca (per il primo enunciato, dal De beneficiis) alla Bibbia (dalla Vulgata, lettera di Pietro). La frase è stata variamente spiegata dalla storiografia (Wallace e Weisbach fra tutti), e ha trovato in Reinhard Brandt un'interpretazione che può introdurre perfettamente al personaggio di Salvator Rosa, alla sua modernità e al motivo per cui oggi, a quattrocento anni dalla sua nascita, si possa parlare di lui, proponendolo in un dialogo significativo coi maestri incisori contemporanei. Democrito, il filosofo dell'atomismo (una delle visioni più “scientifiche” dell'antichità, che ebbe un forte peso per la nascita della scienza moderna), si trova a constatare la veridicità della sua dottrina e che “alla fine di tutte le cose” c'è il mondo degli atomi, in questo caso delle strutture atomiche prive di vita. E' un riso beffardo quello del filosofo, che non si stupisce ma piuttosto irride la dissennatezza umana, che si perde dietro all'effimero, alle passioni dell'essere. Salvator Rosa introduce perciò in quest'opera, richiamando la tradizione filosofica classica e sottolineando il rilevante ruolo degli archetipi, una riflessione sulla condizione dell'essere umano e del mondo intero, la cui verità consiste nella sua fatuità, in quel cimitero di ossa disperse che si mostrano in tutta la loro evidenza.
Davanti ad un'immagine come questa possiamo analizzare ciò che esiste e ciò che si manifesta in un tempo interiore condiviso, in cui l'arte si mostra come stratificazione, memoria e profondità nel tempo, in cui ritrovare gli archetipi che sostanziano la nostra essenza. E' un percorso coraggioso, che procede al di là delle tecniche, degli stili e delle tendenze e che rende prossimi e contemporanei artisti vissuti in secoli differenti, secondo una concezione circolare del tempo, in una “temporalità sospesa” direbbe Heidegger, in cui il tempo stesso è inteso come senso dell'essere.
Ed il tempo è un elemento sostanziale che agisce ed è presente costantemente in un lavoro lento come quello dell'incisione, in netta contrapposizione con la produzione artistica basata sulla sperimentazione e improvvisazione, che tende a ricercare il consenso immediato, il consumo veloce, l'assenso di massa. Gli artisti che oggi si cimentano con l'acquaforte (e acquatinta, puntasecca, vernice molle e varie tecniche miste), scegliendo questa tecnica per le connotazioni e il valore dei risultati grafici che comporta, nonché per le implicazioni poetiche, si confrontano inevitabilmente col tempo e lo spazio per creare un segno declinato in infinite modulazioni e spessori, in una molteplicità di pensieri e di realizzazioni che adottano l'ordine di una regola per rappresentare la complessità e le ambiguità del reale.
Ritroviamo così, fra i maestri contemporanei in mostra, le molteplici declinazioni di archetipi che passando nella storia, abitano un tempo che non ha confini, che indagano l'esistenza umana fra ordine e caos e che come nell'Aleph di Borges, si pongono come racconti che si accostano l'uno all'altro, ognuno come principio di partenza e di direzione, senza mai indicare una meta, un arrivo, in una vita che è storia, illusione ed essenzialmente labirinto interminabile.
Ecco che ci troviamo davanti a visioni di essenzialità formale come quelle di Jacob Demus e di Patrizio di Sciullo, che indagano in modo analitico la realtà e la natura per trasporla in suggestioni poetiche che amplificano la nostra percezione del reale, o immersi nei silenzi ammalianti di Rodolfo Ceccotti, capace di evocare la natura profonda delle cose, in attimi rivelatori della realtà che diversamente non sarebbe possibile cogliere. Reale che è ansia della vita germinante nella complessa costruzione di vitalità naturale dell'opera di Giorgio Roggino, sottolineata dall'intrico dei tratti e della modulazione del segno, che in Lanfranco Quadrio diventa movimento in tratti che si scontrano e si aggrovigliano, analizzando forme archetipiche della natura.
E la realtà che conosciamo reca con sé, inevitabilmente, l'eco di una memoria che si manifesta attraverso frammenti, che coglie il mondo nella sua essenza esistenziale, come nel bosco innevato di Livio Ceschin, al cui margine si rendono tangibili gli echi degli affetti e di ciò che è stato, nell'affiorare di corrispondenze lontane. La memoria si trova anche nelle sovrapposizioni mentali dell'irriducibile verità del tutto, di un reale sospeso e sognato come viaggio nel tempo, come in Paolo Ciampini, o nella cronaca di ciò che siamo, memoria reale, puntuale e al tempo stesso filtrata attraverso l'arte, tangibili nella processione in Santa Maria Corteorlandini di Franco Anichini o nel San Petronio di Toni Pecoraro.
L'indagine della realtà passa attraverso la sintesi, la precisione estrema e attenta che delinea ogni particolare, ma passa anche attraverso una sorta d'introspezione mista ad intuizione eidetica, per lampi improvvisi, superando il ragionamento e la conoscenza sensibile, arriva a cogliere, attraverso attimi cristallizzati, l'essenza generale dei fenomeni. Così nell'universo poetico di Vincenzo Gatti, in cui l'atmosfera privata testimonia un racconto interiore che scava nelle cose per trovarne l'essenza, in bilico fra reale e surreale o nella solitudine degli interni di Safet Zec, un mondo intimo e al tempo stesso mistico e misterioso, racchiuso in un groviglio di segni profondi e leggeri. La storia e la memoria possono esistere come forze prive di finalità che inevitabilmente parlano della dissoluzione e del disfacimento, l'ultima declinazione della vanitas in un ordito di segni netti e tortuosi che Roberto Stelluti propone rinnovando la tradizione seicentesca, rendendo la staticità della composizione ricca d'inquietudine.
L'acquaforte è anche mezzo attraverso cui prende sostanza l'immaginazione, seguendo il fulgore di una espressività drammatica o legata al sogno, declinate da Andreina Bertelli nei segni e sogni che svelano incanti di costruzioni animate da personaggi circensi, o che ci mostrano mondi e personaggi ipotetici di un visionario sublime come nelle acqueforti di Agostino Arrivabene, in cui le visioni alchemiche si concretizzano in particolari densi di rimandi metaforici e significati.
La vocazione immaginativa al racconto è caratteristica precipua di Mario Scarpati, che indaga il grottesco attraverso sovrapposizioni di un dinamismo brulicante, che si costruiscono nell'acutezza del segno inciso che si infittisce, mentre in Claudio Olivotto la narrazione passa attraverso il sovrapporsi continuo della realtà all'allegoria, in un clima fantastico-simbolico di un tempo che non trova una precisa collocazione storica.
Con Èrik Desmaziéres ci troviamo infine, come in un percorso che si chiude ad anello, in un gioco erudito di citazioni molto vicino alla complessità intellettuale del Democrito di Salvator Rosa, in cui si rincorrono suggestioni artistiche, letterarie e filosofiche che narrano di un contemporaneo inquieto, alla ricerca costante di un equilibrio sul filo dell'illusione.
In Civiltà del Seicento a Napoli leggiamo un accurato ritratto del Rosa: "Salvator Rosa, nel XVII secolo è uno degli artisti più famosi in Italia; non era solo un pittore e calcografo, ma con le sue odi, satire e il suo carteggio conquista un posto nella storia della letteratura. Studia a Roma con il pittore Josè de Ribeira, poi a Napoli con Aniello Falcone e più tardi a Firenze e ancora a Roma. Cambia il modo di rappresentare del classicismo sottoponendo le figure e la passione ad una tematica filosofica e morale e così facendo segue Nicolas Poussin, da lui molto ammirato. La sua Weltanschaung è stoica e, in molti dei suoi motivi, egli è un precursore della rappresentazione del pittoresco e del sublime del XVIII secolo. La sua pittura è strettamente legata alla poesia". Soprattutto il suo forte spirito critico, la libertà di pensiero e la sua arte, spesso in contrasto col conformismo del suo tempo, lo rendono un artista capace di esplorare in tutte le sue sfaccettature il segreto dell'esistenza, con una forza d'evocazione espressione preminente di una libertà creativa estremamente moderna. Un artista capace di parlare in modo cosi essenziale e necessario da diventare la sua opera poesia “migliore del silenzio”, creando luoghi metaforici in cui lo spirito soffia dove vuole, fino a raggiungere l'oggi.
Alessandra Frosini
1 “O taci o esprimi cose migliori col silenzio”: tratto dallo scrittore greco Stobeo, che lo tramanda come un aforisma di Pitagora, è riportato sull'autoritratto del Rosa datato 1641 e oggi conservato alla National Gallery di Londra.
(testo per il catalogo della mostra)
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