Show & Tell
Mostre, Padova, 10 May 2012
Show and tell

L’arte di Stacy Gibboni ci assale con il suo colore, ogni pennellata costruisce una rete di segni in cui ci viene chiesto di entrare per essere parte del suo paesaggio. Un paesaggio mentale dove il nostro occhio vaga come una farfalla sopraffatta di ebbrezza nell’immenso batuffolo giallo, che si arresta a bere rossi sanguinolenti e azzurri plumbei, per immergersi infine in quello spazio bianco carnale, dove finalmente riposa. Il ritmo richiesto nel seguire le pennellate è un ritmo sincopato, dove le battute si inseguono e si richiamano in una sorta di danza circolare in cui siamo chiamati a partecipare. La partecipazione richiesta è intensa e intima: una storia in cui entrare.
Una storia – tante storie – emergono dalle grandi e piccole tele dove la scena rappresentata è sempre una scena ritagliata, in cui elementi isolati - siano essi boccioli, petali, foglie, alberi - creano, per autonomi risucchi compositivi, la spazialità del quadro. La trascrizione istantanea del motivo naturale, scelto come soggetto dell’opera, si distribuisce sulla superficie pittorica secondo necessità formali dettate da una pittura vissuta come momento di scrittura autobiografica. Lo stesso scarso interesse per il livello di rifinitura delle tele, la presenza di sgocciolamenti, la scelta di non preparare la tela con basi in gesso, si legano all’energia espressiva inaugurata da Jackson Pollock, pur se nel lavoro di Stacy Gibboni quell’energia è sempre mista ad una profonda gioia dell’esistere. A volte, però, il segno e il colore sono insufficienti a descrivere e comunicare l’energia intrinseca, ed è qui che entrano in gioco l’uso e la scelta di materiali di recupero che hanno già in sé un vissuto.
Recuperando stilemi tipici della cultura neoespressionista, ritrae elementi carichi di vitalità che esprimono la gioia e la forza della natura. Con neoespressionismo intendiamo quella reazione all’arte concettuale e minimalista, che si esprime con il ritorno alla raffigurazione formale di oggetti riconoscibili, ritratti in modo vivido e forte. Stacy Gibboni porta sulla scena del quadro i paesaggi del suo passato, gli ampi spazi americani colti attraverso i dettagli luminosi che li costruiscono. La relazione che l’artista ha con il mondo naturale è una relazione che si comprende solo ricordando le sue origini, la sua vita. Americana, nata in Arizona, cresciuta in New Jersey, ha vissuto per molti anni in Georgia sulle coste dell’oceano. Quelle stesse vedute a perdita d’occhio sono elementi del suo mondo pittorico, dove la prospettiva è assente, la visione è frontale, il colore abbagliante.
Il linguaggio pittorico usato dall’artista recupera peraltro anche elementi concettuali, in particolare la scrittura, presenza quasi costante nelle sue opere, che spesso ne costituisce il tessuto. Stacy Gibboni utilizza la parola contestualmente come segno grafico e come significante, la sottopone a manipolazioni, la riduce a semplice rilievo. Nascono così lavori come Take Three, in cui la scrittura assume un ruolo sempre maggiore nel dipinto mediante l’inserzione di parole a volte appositamente cancellate o semi cancellate per attirare l’attenzione di chi guarda e invitarlo a ricostruirne il senso. Accostandosi a Cy Twombly nell’usare una grafica elementare realizzata da frammenti verbali, usa le parole come fossero pennellate. Tale orientamento stilistico si acuisce nei lavori che appartengono al periodo che potremmo definire “bianco” in cui il colore scompare per lasciare il posto alla scrittura. Non assistiamo solo alla massiccia presenza di parole, lettere, frasi ma la pennellata vigorosa di colore che informa i dipinti a soggetto naturale, come Piccante, lascia il posto alla grafite, alla matita. In questo caso è il tratto del disegno ad essere usato come fosse testo scritto. L’assidua frequentazione con l’artista Angiola Churchill, nelle cui opere è notoriamente assente il colore, e i periodi sempre più lunghi di permanenza a New York, determinano sicuramente questa svolta stilistica. La cultura metropolitana con cui è sempre più a contatto porta inevitabilmente ad una variazione nell’uso dell’elemento grafico e nella scelta di soggetti: scompaiono gli elementi naturali colti nella loro vitale esplosione e emergono forme sempre più stilizzate, quasi astratte, anche nelle tele di grandi dimensioni come Jungle Scape. Dietro la maschera di motivi codificati, dalle sue opere di questo periodo emerge un senso di vuoto rabbioso, che cela una fitta rete di allusioni riconducibili ad un momento della sua esistenza dove il suo essere artista è oppresso da incombenze materiali a cui non può sottrarsi.
La visitazione delle possibilità espressive del bianco e del segno grafico è gravida di conseguenze per il suo operare artistico: l’attenzione ora si sposta verso altri mezzi artistici e Stacy Gibboni si dedica all’esplorazione del video, della fotografia, della performance e dell’installazione. Il periodo in assenza di colore l’ha posta davanti a nuove possibilità di ordito compositivo che sono ricercate in altre espressioni quasi a sottolineare un’impossibilità della pittura in assenza di colore. Ed ecco allora prendere forma video come White Picket Fence Included, ancora venati di amara gravità, dove la natura non è più vastità ma costrizione, visioni paesaggistiche limitate da una serie di staccionate. L’architettura ha occupato il posto che una volta era della natura. Ancora un soffio vitale naturalistico persiste ma è breve e agonizzante. Il senso di infinito che permea i suoi dipinti si è perso ed è stato sostituito dai gesti dell’uomo diventati solide pietre. Forse è proprio per questo che lo stesso slancio vitale presente nelle sue prime opere lo ritroviamo intatto nei lavori su carta fatti a New Orleans. Dopo Katrina, solo la natura ha resistito, le opere dell’uomo sono andate tutte completamente distrutte. E in queste opere l’uso del colore è mirabilmente accordato con l’uso della grafite su carte riciclate, recuperate dall’abbandono. La metamorfosi è avvenuta, l’aver attraversato un periodo “bianco” ha portato l’artista ad un perfezionamento del suo stile ormai perfettamente riconoscibile nella pur vastissima produzione artistica contemporanea. Il colore, mai del tutto abbandonato – ricordiamo che le tele a motivi naturali non sono mai del tutto scomparse dalla sua produzione artistica – ma oscurato per un certo periodo da un’attenzione rivolta ad altri processi, ritorna con estrema forza sia nelle opere che appartengono alla serie Musical Chairs sia negli ultimi dipinti dove sono presenti soggetti tratti dal mondo della natura. L’opera di Stacy Gibboni in Musical Chairs ci presenta un oggetto a noi molto familiare isolato dal suo ambiente, fluttuante in muri di colore, dando la possibilità a chi guarda di vivere la sedia come oggetto emozionale. La relazione con l’oggetto è questione di una singola emozione, le sedie come ritratti senza volto aspettano di essere definite da chi guarda, aspettano di essere udite.
Tutta l’opera di Stacy Gibboni è una storia che aspetta di essere ascoltata, un’emozione che attende di essere percepita. Una storia – tante storie – come quelle che raccontano i piccoli americani durante i loro primi giorni di scuola ai loro compagni nel gioco chiamato appunto Show and tell.

- Natasha Bordiglia Venezia, Aprile 2012


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