Andy Warhol: Vetrine
Mostre, Napoli, 21 April 2014
Andy Warhol: Vetrine
Pan | Palazzo delle Arti Napoli
18 aprile - 20 luglio 2014
di Giovanni Cardone

Venerdì 18 aprile si inaugurata al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli la mostra Andy Warhol: Vetrine curata da Achille Bonito Oliva e organizzata da Spirale d’idee in collaborazione con l'Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, Forum Universale delle Culture ,in partnership con E.A.C. Electronic Art Café, con il supporto di Jaguar Land Rover, di Ferrarelle, di DMG. La rassegna raccoglie 180 opere e rivolge particolare attenzione al rapporto che legava Andy Warhol a Napoli, nato a metà degli anni 70 grazie all’amicizia con il gallerista Lucio Amelio e alla volontà di Mario Franco. Il percorso espositivo si snoda, infatti, attraverso i ritratti dei personaggi noti della città, che l’artista ebbe modo di conoscere durante le sue visite in Italia, quali Graziella Lonardi Buontempo, Ernesto Esposito, Peppino di Bernardo, Salvatore Pica, e naturalmente Joseph Beuys, oltre alle vedute partenopee delle sue Napoliroid. Proprio all’amicizia con Lucio Amelio si deve la nascita del suo più noto e monumentale headline work, Fate presto, basato sulla prima pagina del Mattino del 23 novembre 1980, il cui strillo trasformava in notizia l’evento drammatico del terremoto d’Irpinia, che per la sua distruttiva violenza impressionò l’artista. Tanto da ispiragli, qualche anno più tardi, una nuova serie di lavori, Vesuvius, in cui l’immagine del vulcano, uno dei temi classici dell’iconografia locale, viene replicata ossessivamente in colori diversi. «Per me l’eruzione – spiegò infatti Andy Warhol - è un’immagine sconvolgente, un avvenimento straordinario ed anche un grande pezzo di scultura… Il Vesuvio per me è molto più grande di un mito: è una cosa terribilmente reale». Adombrando fenomeni caratteristici di Napoli come i “femminielli”, la produzione dei falsi o la tradizione canora, la mostra propone la serie Ladies and Gentlemen del 1975 (con relativi acetati e polaroid) e i disegni realizzati dall’artista a partire dalle fotografie di Wilhelm von Gloeden (1978) acquistate da Lucio Amelio; la storica serie Marilyn del 1967 e quella firmata nel 1985 da Warhol con la scritta «questa non è mia» (Marilyn this is not by me); le numerose collaborazioni avute dall’artista con case discografiche, cantanti e gruppi musicali, firmando cover assolutamente rare già alla fine degli anni degli anni 40 e altre presto entrate nella storia del rock.. Il Sindaco Luigi De Magistris ci dice : “Napoli è icona da sempre. Lucio Amelio lo sapeva, Andy Warhol gli ha dato ragione. Lo ha fatto con l’imminenza di una tragedia, autentica nella sua cinica ripetibilità: il terremoto. L’urgenza espressa nella prima pagina de “Il Mattino” è divenuta immortale grazie alla gigantografia ripetuta per tre volte in tre diverse tonalità di grigio. Altrimenti sarebbe rimasta una prima tra le prime in un prezioso volume da emeroteca. Poi, sempre sollecitato da Amelio, Warhol ha restituito a Napoli e alla sua vocazione di icona una seconda immagine, questa volta immanente e non più imminente, esasperando, come solo la Pop art sapeva fare, l’autenticità dell’emblema. Del resto il Vesuvio è luogo raccontato nella letteratura e nelle arti figurative secondo solo alla terra crocevia di tre monoteismi. In tanti ci sono stati sopra il Vesuvio, ma tanti altri no. Ma non per questo hanno ritenuto opportuno astenersi dal raffigurarlo o dal raccontarlo, creando così il simbolo. Sarà per questo che si torna al Vesuvio e quasi mai ci si va, anche se è per la prima volta. La confusione e i volti dei travestiti restituivano a Warhol familiarità per le strade di Napoli, la stessa sensazione avvertita a New York. Anche nella New York degli anni Ottanta in un certo senso si tornava, così stra-raccontata nei film, nella musica e nell’arte figurativa. Quella confusione e quei volti che per Pasolini potevano essere boccacceschi, anche boccacceschi, per Warhol erano pop. Napoli che tutto sa essere divenne allora pop. Avvertita e riconosciuta da Warhol, al di là del bene e del male, nella sua confortevole complessità. Come Mao Tse Tung, come Marilyn e come Jackie Kennedy, come la lattina della Campbell, anche il Vesuvio divenne pop. Napoli è icona da sempre. Lucio Amelio lo sapeva, Andy Warhol gli ha dato ragione”. Mentre l’Assessore alla Cultura Nino Daniele invece ci dice : “Andy Warhol, padre della Pop art americana e uno dei più grandi geni del XX secolo, ritorna a Napoli. La mostra in programma al Pan - Palazzo delle Arti Napoli rappresenta per il pubblico un’occasione rarissima per ammirare alcune delle opere più importanti dell’artista americano e di ricostruire, attraverso un percorso che raccoglie 180 lavori, il rapporto che lega Andy Warhol con Napoli, iniziato a metà degli anni Settanta grazie all’amicizia con il gallerista Lucio Amelio e alla volontà di Mario Franco. Un’iniziativa, quindi, che ha le sua radici nel nostro capoluogo e che grazie alla cura di Achille Bonito Oliva e all’organizzazione della società Spirale d’idee, ci restituirà l’immagine di una città vitale, dove Warhol trovò innumerevoli fonti d’ispirazione, anche a seguito di fatti tragici come il terremoto del 1980 che portò alla nascita del suo più noto e monumentale headline work, Fate Presto, uno dei pezzi principali dell’esposizione. C’è molto di Napoli in questa rassegna, a partire dall’immagine guida, il Vesuvio, uno dei temi classici della nostra iconografia, che viene replicato ossessivamente in colori diversi; ma anche tanta America, con la storica serie delle Marilyn del 1967 e le serigrafie delle Campbell’s soup, le “scatole-scultura”. Ritorna così a prendere forma quella liaison imaginaire tra Napoli e New York cercata a suo tempo da Amelio, e che Andy Warhol ha trasformato in maniera mirabile in opera d’arte. Il carattere già internazionale della mostra è ulteriormente rimarcato dal contesto in cui va a inserirsi: il Forum Universale delle Culture di Napoli”. Infine il curatore della mostra Achille Bonito Oliva dice: “Andy Warhol e le vetrine dell’arte Nella visione nietzschiana la morale origina dalla paura della considerazione dell’altro. L’uomo teme il giudizio altrui, perché stima se stesso in base al pensiero che gli altri hanno di lui e adegua il proprio comportamento a quello della moltitudine. In Aurora.
Pensieri sui pregiudizi morali (1881) il filosofo tedesco scrive a proposito dei vanitosi: “Siamo come vetrine in cui noi stessi continuiamo a disporre in bell’ordine, a nascondere o a mettere in mostra, le pretese qualità che altri ci attribuiscono – per ingannarci” . In Al di là del bene e del male (1883) e poi nel suo pamphlet contra Wagner (1889) Nietzsche torna a parlare di vetrine, in riferimento questa volta al fenomeno letterario, artistico e sociale della decadenza europea nella sua forma più avanzata: la décadence francese, definendo i suoi protagonisti “grandi scopritori nel regno del sublime, e anche in quello del brutto e dell’orrido, scopritori ancor più grandi nell’effetto, nella messa in scena, nell’arte delle vetrine, talenti tutti quanti ben al di là del loro genio”.Come non avventurarsi con questa guida nell’universo-Warhol, dove la valenza assertiva dell’immagine provoca pura spettacolarità e la ripetizione esprime un paradossale amore per l’arte: un’estensione quantitativa che si ribalta in amplificazione qualitativa. In un’intervista rilasciata ad “Art News” nel novembre 1963 l’artista afferma con lucido candore: “Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine. […] Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina”. Dal ready made di Duchamp e dalla tecnica del surrealismo l’artista trae la matrice linguistica della pop-art. Ma c’è anche la pittura dell’american scene di stampo realistico, portata in Hopper a celebrare puritanamente il senso della città, la trasformazione della natura in storia. Di questa tradizione figurativa naturalmente Warhol non riprende l’etica di fondo, bensì soltanto l’ottica descrittiva e oggettiva che assisteva questo tipo di figurazione, d’altronde già presente nelle descrizioni letterarie. Lo stesso Warhol riconosce il suo legame con l’anima luterana dell’America, quando a Nancy Blake, nel 1977 firma di “Art Press”, dice: “Io sono fatto alla vecchia maniera. È veramente il mio problema, sa? L’etica protestante. Se potessi fare a meno dei prodotti, sarebbe l’ideale. Ma oggi, per semplificare, ci vogliono un sacco di soldi”. Altro precedente importante poi è la ricerca di Jasper Johns sugli stereotipi visivi della vita americana, che negli anni Cinquanta spostava l’opera sul versante dell’impersonalità e della tautologia visiva, nonostante la pittura avesse ancora il sopravvento. Da qui Warhol procede oltre, spostando completamente il tiro nella direzione dell’immagine oggettiva, stereotipata e meccanica. La serialità dell’immagine di consumo comporta infatti, necessariamente, l’assunzione di cliché che producono standard espressivi che non possono essere alterati durante il processo di produzione. Warhol non solo assume direttamente nel proprio linguaggio tale determinatezza ma riesce a sostenere il confronto con la grande industria in quanto a impersonalità e conformismo. Conformismo che nella società di massa non è un peccato mortale, non è inteso come perdita della personalità, bensì come adeguamento confortevole a standard di comportamento che permettono al corpo sociale di respirare un’atmosfera unanime, una maniera di sfuggire lungo la tangente della quantità a una solitudine altrettanto quantitativa. Con la sua presenza fredda e distaccata cancella ogni traccia di profondità e i suoi quadri, i suoi ritratti, diventano la celebrazione della superficie per la superficie.

Lo strumento da lui usato è uno stile che non rifiuta il sistema meccanico di riproduzione dell’immagine, perlomeno dell’ottica e dello spirito che lo determina, ma anzi accoglie il procedimento e la neutralità di fondo che lo sorreggono. Perché questo avvenga è necessario eliminare ogni discriminazione per quanto riguarda l’ambito dove l’immagine nasce, cresce e si sviluppa. Warhol trasporta nell’arte l’idea del multiplo, dell’oggetto fatto in serie: l’individuo ripetuto in uomo massa, in uomo moltiplicato portato dal sistema in una condizione di esistenza stereotipata. Al prodotto unico subentra l’opera ripetuta, la cui reiterazione non comporta più un’angoscia esistenziale ma il raggiungimento di uno stato di ostentata indifferenza, che è lo stesso attraverso cui Warhol guarda il mondo e che costituisce la premessa di quel consumo cui la civiltà americana e l’artista stesso non intendono sfuggire. L’occhio cinico di Warhol ci restituisce la condizione oggettiva del ceto medio americano accettata così com’è e per quello che è, poiché i modelli adoperati non sono fuori di quella realtà ma dentro: le facce inespressive dell’uomo-folla gettato nella sua solitudine quotidiana, separato dagli altri uomini; incidenti d’auto; nature morte di fiori psichedelici riprodotte con gelida allegria attraverso il procedimento meccanico della serigrafia. Sono tutte immagini recuperate dallo spazio cittadino: una megalopoli sconfinata e proliferante, portato di una economia in espansione anche oltre i confini degli Stati Uniti. La città è infatti uno spazio considerato acriticamente, visto come matrice di immagini che possono essere assunte nel campo dell’arte. L’oggetto quotidiano non abita il punto basso della gerarchia del paesaggio che circonda l’artista, anzi viene prelevato con l’ottica neutrale e asettica del sistema che lo produce. Rispetto a Duchamp, Warhol ha una maggiore coscienza felice in tale operazione di prelievo in quanto sostenuto da una mentalità che non soffre i disagi della civiltà tecnologica, come produttrice di alienazione. Egli si muove con maggior cinismo operativo, sollevato dal peso dell’ideologia e spinto in tal senso dall’adesione ideale a un tipo di società opulenta e affluente. Il paesaggio artificiale della città viene vissuto come unica natura possibile, come sfondo naturale dell’uomo moderno. Palcoscenico per antonomasia della pop-art è New York, già pronta all’inizio degli anni Sessanta a trasformare la “società di massa” in “società dello spettacolo”. Qui le immagini accompagnano il viaggio diurno e notturno dell’uomo, irrigimentato nell’ingranaggio produttivo di una macchina che funziona senza sosta, secondo ruoli già assegnati che lo rendono partecipe e soggetto passivo del grande spettacolo della merce. Dato il meccanismo del sistema produttivo, le immagini della città vengono accettate nel loro improvviso narrativo come reali. Perciò la tecnica del sogno diventa il tramite necessario per leggere la città e le sue imprevedibilità. D’altronde il sogno, la sostanza onirica, permea di sé la vita quotidiana della società americana, attraversata da immagini e da merci che affollano il suo panorama visivo e tattile. La metropoli è l’alveo naturale dell’american dream, inteso come sogno continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce. La città è un grande happening, un evento incontrollato, in cui le immagini si associano tra loro, si scompongono, si sovrappongono e scompaiono.


La produzione, sostenuta dal gioco serrato della pubblicità, crea, per soddisfare i propri ritmi, una sorta di fame, un desiderio di oggetti e consumi. Ma la situazione presto s’inverte: ora è l’oggetto a inseguire il soggetto. La città apre la sua caccia sadica all’uomo, in quanto ormai esiste un’inversione di ruoli e una nuova gerarchia di posizioni: la città è il fine, l’uomo il mezzo. La città non è più, infatti, lo spazio delle relazioni interpersonali ma il luogo dello scambio, di un puro passaggio di merci. La merce, infatti, è la grande madre che accudisce il sonno, i sogni e gli incubi dell’uomo americano, che lo assiste in tutti i suoi bisogni, fino al punto di incentivare e creare nuovi consumi. E il lavoro è l’unico tramite che l’uomo può stabilire con la realtà urbana e il suo sistema di accumulo e distribuzione di funzioni. Neutralità, oggettività e impersonalità sono i caratteri che identificano, nel pragmatismo anglosassone e nel suo sistema economico, il produttore con il prodotto. Una lezione ripresa poi da Jeff Koons che ne ha celebrato la perennità con la sua discendenza. Un’estasi materialistica sostiene lo sguardo di Warhol, che muove da un deposito imperituro di sogni incalzanti per effettuare il prelievo di una singola immagine. L’arte diventa il momento di esibizione splendente ed esemplare del sogno, la pratica alta che mette sulla scena definitiva del linguaggio lo stile basso delle immagini prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, dalla pubblicità e dagli altri strumenti di persuasione occulta ed esplicita dell’industria americana. L’accumulo grammaticale delle immagini è l’effetto di una mentalità che non ha il mito della complessità del mondo ma ha individuato le istanze dell’uomo e necessaria esibizione di tali istanze, collegata alla dimensione non negativa di spettacolarità insita nel sistema sociale ed economico. Così Warhol situa le proprie immagine per associazione elementare, che riflette con cinica disperazione il destino dell’uomo: l’esibizione come esibizionismo quale ineluttabile cancellazione della profondità e riduzione a uno splendente superficialismo. Lo spegnimento della profondità psicologica segna il punto di massima socialità nell’opera di Warhol. In una realtà tecnologica che tende alla moltiplicazione e a moltiplicarsi, l’unica maniera di affermare tale identità è raddoppiare se stessi. Tale procedimento passa inevitabilmente attraverso lo specchio, attraverso l’onanismo, l’esibizionismo, il narcisismo, per cui ogni rapporto è pura tensione, possibilità bloccata nel suo nascere che definisce l’uomo come semplice voyeur della propria solitudine e del mondo”. Seguendo la liaison imaginaire tra Napoli e New York cercata a suo tempo da Amelio, l’esposizione rintraccia i nodi di una sotterranea empatia tra l’underground promiscuo e multirazziale, bello e dannato della metropoli statunitense e la magmatica creatività popolare della capitale storica del Mediterraneo. Un territorio sempre in bilico tra morte e rinascita, dramma e commedia, ricchezze artistico-culturali e paccottiglia kitsch, che ancora una volta si manifesta quale sipario strappato sulla scena interiore della contemporaneità.



Per celebrare il ritorno di Andy Warhol a Napoli e per sottolineare ulteriormente il legame che univa l’artista americano alla città, Acqua Ferrarelle, effervescente naturale di nascita e cuore campani e partenopei, è lieta di offrire a tutti i visitatori l’ingresso gratuito alla mostra nei suoi primi 3 giorni di apertura, dal 18 al 20 aprile 2014. In questi giorni di preparazione alla mostra di Andy Warhol come ci dice Fabio Pascapè: “ E’ stato un grande successo che ha avuto oltre i diecimila visitatori lo dico con grande soddisfazione. Lo si e visto prima durate e dopo quando il 10 aprile abbiamo fatto “Aspettando Warhol” con 1200 partecipanti ancora il 13 aprile con l’evento “Io non vivo in mondo Iperreale” coinvolgendo tutta la città. Il 15 aprile forse ho avuto in parte la conferma con 100 giornalisti accreditati, mentre il 17 aprile abbiamo avuto due eventi fondamentali alle 15.00 visita guidata con insegnati, professori, e Dirigenti Scolastici e alle 18.00 della stesso giorno al vernissage oltre 1500 persone su invito, mentre la mia gioia è stata la risposta della città. Tutti ci vogliono far credere che ella vive un torpore culturale, invece sembrava essere di nuovo la capitale culturale del mediterraneo molti mi hanno detto questo non lo hanno visto ne a Londra e ne a New York”.



ANDY WARHOL. VETRINE
Napoli, Pan | Palazzo delle Arti Napoli - Palazzo Roccella (via dei Mille 60)
18 aprile - 20 luglio 2014

Orari: dal lunedì al sabato dalle ore 9.30 alle ore 19.30; domenica dalle ore 9.30 alle 14.30.
Martedì sono chiuse le sale espositive del I e del II piano

Ingresso: € 8,00 intero
€ 4,00 ridotto (ragazzi dai 6 ai 17 anni)
€ 5.00 studenti
Bambini fino a 5 anni, gratuito
Biglietto famiglia 4 ingressi: € 17,00

Informazioni: tel. 081 3630018

Giovanni Cardone






Commenti 0

Inserisci commento

E' necessario effettuare il login o iscriversi per inserire il commento Login