marzo 2013
Quando Gianni Antenucci e Valentino Ulivi m’invitarono ad intervenire a questa iniziativa del Pecci di Prato, non esitai un attimo. Mi piacque subito il titolo Arte a Km 0, in cui ravvisai subito il desiderio di rianimare il museo come luogo pubblico, non di sicuro l’inutile tentativo di indagare sull’identità culturale di una città, di una provincia e tanto meno di una nazione magari finalizzata alla deleteria celebrazione dell’ennesimo Genius Loci, certamente, invece, scorgo la riaffermazione del museo come luogo dei pratesi. Il museo a mio avviso deve essere riconosciuto innanzi tutto dalla comunità più prossima quale luogo d’ordinaria gestione della cultura, in cui la pratica quotidiana dell’arte s’opponga alla stravaganza dell’evento alla sua temporalità ridotta e compressa che fa del museo una zona straniera e straniante. Ecco, quindi, il vero significato di Arte a Km 0 quello in pratica di ri fondazione di un’istituzione la cui ragion d’essere è sancita dalla partecipazione di un’intera comunità, un luogo, quindi, da sentire come proprio e dove si possa esercitare a buon diritto la facoltà di interpretare il mondo attraverso l’arte, di confrontarsi con i suoi linguaggi e crescere. Vedere il Museo al centro della vita pulsante di tutti i giorni, vederlo farne parte come un ufficio di formazione permanente non è una visone utopica ma una realtà del resto tangibile in molte regioni d’Europa. Il Museo Pecci di Prato che è uno dei primi musei d’arte contemporanea d’Italia potrebbe, a mio avviso, diventare veramente uno dei primi musei d’arte contemporanea a “Km 0! La dove la distanza ridotta non è nella ricerca delle creatività ma piuttosto e quella tra cittadino e istituzione.
Chiarito ciò, siamo qui per parlare dei lavori Gianni Antenucci, ho scelto di mostrarvi i lavori di plaxiglass. Si tratta di collages, pitture, posti in una scatola opaca che lascia trasparire l’alone, l’aureola colorata di una forma cardiomorfa. Per captare la ragione di questa pittura, perché di ciò si tratta, bisogna immaginare quei ritrovamenti di organismi ibernati nel ghiaccio e molti lavori di Antenucci si chiamano, per l’appunto, Bighiacci. Immaginate quindi di trovarvi davanti ad un organismo congelato che potrebbe riprendere nuovamente vita e testimoniare il remoto nel presente.
Nella sua forma letargica sotto un’algida cortina, la pittura si mostra come un sapere archeologico, traspare tenendosi a distanza nell’intercapedine tra la superficie prossimale all’occhio e quella della contiguità risolta in immagine. Proprio questa natura ambigua d’immagine da alla pittura il primato sulla sfacciata evidenza, dichiara un ritardo un arretramento, una ritrosia ad affacciarsi al mondo. Protetta ma pur sempre visibile è ancora pulsante, sebbene di una pulsazione impercettibile, lontana ma ancora capace di condensare il respiro nella sua dimensione fluttuante.
Evitando l’abbaglio, l’effetto eclatante, la pittura d’Antenucci arretra, s’è detto e, quasi si nasconde nel profondo, sfiora l’apparenza come un alone colorato. Questo nucleo centrale imprigionato in un lucore d’ambra nivea è sfida all’occhio, chiamato ad attraversare, più che a scorrere la superficie.
Superficie che è sbarramento e negazione, liquido rappreso in un’intercapedine che crea lo spessore necessario a mettere la pittura dietro, anzi, dentro. La forma che Antenucci ha scelto, il cuore, è un pretesto, sia chiaro, ma è un pretesto emblematico: in esso rimane l’idea di vitalità dell’antica sede dei sentimenti ed è di questo sentire che lui parla. La pulsazione del colore cercata in una dimensione che ne ritarda la lettura immediata, ne conserva il linguaggio antico, repertoriale, trasfigurandola. La macchina visiva, costruita con la scatola di plexi, l’oggetto in se, è un meccanismo di trasfigurazione e ciò mi sembra che faccia entrare il quadro nella costruzione di una prospettiva non più strumento di traduzione del visibile ma del sensibile. L’ingresso nello spessore della pittura è anche l’invito a fruire di un tempo altro dominato dal rallentamento della reazione tra percetto e cognizione, tra sguardo e reazione, un tempo ibernato, quasi sospeso e passato a gustare le liquidità e le densità, le velature e le apparenze, i bordi di una sagoma e le dissolvenze. Il tempo che la pittura reclama per emanciparsi dal mondo delle immagini che arte non sono.
Vi ringrazio ancora dell’ospitalità e auspico che venga ripetuta questa manifestazione nell’idea di ritrovare una continuità perduta tra vita di una comunità e pratica dell’arte, ringrazio Gianni Antenucci e, in particolare, Valentino Ulivi dal momento che è stato lui a mettermi in contatto con questa realtà. Ringrazio, in fine la direzione del museo nella figura di Marco Bazzini e Stefano Pezzato dei quali ho sempre apprezzato la professionalità e la tenacia soprattutto in momenti difficili come questo.
Marcello Carriero
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