Il titolo nabokoviano scelto per la mostra – che rimanda a un romanzo che ruota attorno a un particolare genere di (depistante) inchiesta su quello che potrebbe essere un falso doppio per una sovrapposizione di scritture, prima che di storie vissute o immaginate – si presta a connotare in profondità questa serie di dipinti di Alfio Pappalardo. A condensare in essi, scontornate da ogni funzione referenziale, sono immagini-simbolo – l’Etna; il mare; scorci fluviali, poco frequentati anche dalla pittura attenta a compitare i dati fisici, quasi, somatici più flagranti del nostro territorio –, isolate, come suol dirsi, da ogni contesto paesaggistico, con annessi intenti o resa figurativi. Di là da ogni identità cromatica, la Sicilia è decantata attraverso colori freddi (parziali eccezioni, ma che non contraddicono l’assunto: il rosso, che ha fatto il vuoto per incorniciare archetipicamente la Montagna, in Pale Shelter; e il rosa integerrimo e assiderato che lampeggia in Sulla scogliera come in Frijid Pink, omaggio, questo, al gruppo rock anni ’70 cui si deve una delle più belle cover del classico del folk-song The house of the rising sun), in cui dissolvenze e stesure perentoriamente scandite non attenuano la forza delle tinture, ma ne colgono la risonanza pienamente asserita, conservandone lo spessore timbrico. Come la pittura di Alfio Pappalardo ci ha abituato, la delicatezza del tocco e l’intensità della visione trovano una sintesi in cui a prendere forma non è una verità rincorsa nelle sue metamorfosi, ma l’emozione che dovrebbe scaturirne o trovare espressione in un mondo che, così, sembra esitare a esistere. Ma si dice mondo per una approssimazione che pone oltre la percezione dei sensi o le proiezioni a disposizione del primo cui capiti di ricercarvi un denominatore comune luoghi debordanti o variabili meteorologiche, collassati orizzonti di un impressionismo onirico che li incrocia e li sovrappone a frastagliate plaghe atmosferiche, a fluttuanti estensioni procellose che spaziano fra reminiscenze turneriane e l’Informale. Da qui, una qualità lirica tersa, che non è solo della essenzialità del segno, perché fatta di densità senza volume, di immagini senza forma e distanze che sembrano non aver nulla a che fare con lo spazio, in cui le cose sono viste un istante prima che la luce tocchi terra e diventi puro riflesso della realtà così come la trova. Quello che troviamo noi nella pittura di Alfio Pappalardo è, invece, un’arte che ha dalla sua gli dèi presocratici che risiedono in ogni cosa e ne sono l’ombra; e nella fatica incessante degli elementi, di cui sono l’esultanza che non conosce enigmi e la rassegnazione nascosta.
Rocco Giudice
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