Il tema del Mito, dal quale prende vita l’edizione 2013 di Eterotopie, trova un’affascinante corrispondenza stilistica nella ricerca artistica che Lorenzo Manenti porta avanti da tempo con grande sapienza e coerenza estetica. Le tracce del Mito, al di là delle derive onnicomprensive che caratterizzano l’utilizzo del termine nella nostra epoca, si perdono fatalmente in un passato nebuloso, tanto da creare talvolta la suggestione che queste scie possano oltrepassare il concetto stesso di tempo, sfumando silenziosamente in una indeterminata dimensione, nell’imperitura regione degli albori d’ogni cosa, nella matrice ignota di una scienza inafferrabile, questo almeno rispetto ai nostri attuali parametri analitici. Restano certamente davanti ai nostri occhi statue, monoliti, templi, altari, piramidi, e reperti vari, ma spesso tutto questo si riduce ad un esotismo da cartolina o, forse peggio, ad una nozionistica scientista da Voyager. Lorenzo Manenti, attraverso un percorso ad un tempo coraggioso e avventuroso, riformula e fa suo il tema secondo due direttive certamente speculari e simbiotiche: l’aspetto legato all’indagine scrupolosa, a ritroso nel tempo, all’origine delle civiltà antiche, l’archetipo, il riferimento fortemente simbolico e la riproposizione, formalmente attualizzata, di quella che potremmo definire metafisica sepolta, latente, nascosta, sepolta ma tuttavia presente negli anfratti della memoria cosmogonica, nel perenne tentativo di decifrare ordinamenti dei quali sospettiamo istintivamente l’aurea di una perfezione perduta.
L’artista ci riconsegna così, attraverso le tecniche pittoriche e video, la parte silente, enigmatica, di un tempo sommerso atavico, ma tuttavia scomparso solo per cecità odierna, “nascosto sotto le foglie”, parafrasando il detto Hagakure.
Le opere in mostra ci lasciano la sensazione di una sospensione temporale, maschere di pietra che si stagliano possenti su di un labirintico piano esoterico, un viatico per un viaggio al termine, o forse all’inizio, della storia?
Donato Novellini
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Ciao,
Lino
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