Imprimatvr 2014: la rivoluzione dello spazio
Mostre, Mantova, 25 May 2014
IMPRIMATVR 2014: La rivoluzione dello spazio.
Dal 2010 originale piattaforma artistica under 40, la Biennale si muove: lontano dai santuari metropolitani alla moda e dai format artistici in cerca di locazione, con l’orgoglio autarchico e tutto “provinciale”dell’indipendenza, Imprimatvr giunge alla sua terza edizione mutando non poco nella forma, azzardando anzi senza timore una piccola rivoluzione, benché probabilmente implicita già nelle premesse. Si cambia perché tutto si muove attorno e perché noi stessi siamo cambiati rispetto al 2010, anno dell’atto primo. Per affrontare seriamente l’arte contemporanea occorre infatti saper mettere in discussione il percorso affinché le intuizioni generatrici possano sopravvivere allo schematismo rituale delle abitudini, alla trappola delle (auto)celebrazioni e alla noiosa consuetudine delle repliche domestiche. E’ necessario saper innovare anche in ambito culturale, reinvestire il consenso ricevuto e talvolta pure dissiparlo per poter immaginare un futuro possibile, un’opzione aperta, una mossa post-gonzaghesca in grado di documentare e presentare efficacemente cosa accade da queste parti, nel 2014, riguardo all’arte delle nuove generazioni; per questo è diventato imprescindibile saper elaborare forme comunicative ed estetiche alternative alla classica esposizione, pur tuttavia consapevoli del contesto storico e del patrimonio culturale che ci ospita. In altre parole occorre rischiare muovendosi secondo una progettualità ben chiara, cambiando per dare continuità. Il nostro intento, per questo nuovo atto di Imrimatvr, è stato quello di elaborare una sintesi efficace tra forma e sostanza, tra spazio e tempo, creando di fatto inedite suggestioni espositive e diverse prospettive di fruibilità dell’arte contemporanea: soluzioni idonee ad un’idea propensa naturalmente ad evolversi. Perché questa, in fondo, è un’avventura nata fra amici, cresciuta qualitativamente e numericamente nel tempo senza perdere nulla dell’entusiasmo iniziale.
Contenitore e contenuto
Lo spazio imponente, seppur estremamente equilibrato nei volumi architettonici, di chiesa Castello ha posto da sempre grandi interrogativi riguardo al concetto della mostra e al conseguente, propedeutico, allestimento. Non soltanto dal punto di vista volumetrico, decisamente impegnativo, quanto principalmente da quello estetico-decorativo: Stucchi, gessi, fregi, lesene corinzie, statue, affreschi ed abbellimenti vari del tardo rinascimento, oltre a tutta la metafisica delle assenze – crolli e conseguenti restauri, vuoti e pieni alterati dall’incuria passata e dalle ferite del tempo – fanno del luogo un “iper-luogo”, iperbole di sacralità e sontuosità gonzaghesca di matrice albertiana nemmeno troppo dissimulata nonostante danneggiamenti e razzie. All’occhio del curatore la preponderanza annichilisce, anche per via delle altezze alterate dal controsoffitto mancante; alla visione d’insieme un quadro esposto potrebbe perdersi, una scultura resisterebbe a stento, opere di piccole dimensioni svanirebbero: sparite, inghiottite impietosamente – come nella balena collodiana - le creazioni contemporanee giunte a far bella mostra di sé, al di là della qualità specifica, nell’apoteosi post-devozionale che le circonda. Quindi che fare? Servirebbero supporti, nicchie, ostacoli, separé, in fondo come s’è sempre fatto in occasione delle “collettive”. Oppure un filo conduttore, un tema, una guida: vincoli per compromessi. Sarebbe stato logico e comodo replicare , creando artificiosamente un frastagliato microcosmo espositivo, privè come gabbie allo zoo, una visione costretta ed artificiale, una serie di oblò alienanti in grado di mediare con l’habitat circostante per la sopravvivenza di opere create altrove, lacerti per quinte fittizie capaci di dissimulare la mistica delle pietre: compromessi vincolanti. Quindi, essendo questo lo stato dell’arte, perché non trasferire coerentemente “l’argenteria moderna” in un capannone abbandonato? Nell’anonimato neutrale del post-industriale? Perché abusare ancora dei privilegi d’essere in una chiesa di tale prestigio se l’approccio è solo espositivo e da “rassegna” lasciando il luogo sullo sfondo come passiva scenografia? Perché non fare mostra altrove? Perché “Gli edifici cambiano le persone” e le persone cambiano gli edifici, anche dopo averli costruiti. Vivendoli.
Ritorno al futuro: Genius loci
Ed è così che abbiamo cominciato a studiare la chiesa cercando di comprenderne a fondo la storia e le peculiarità, in un affascinante percorso a ritroso, come se la spavalderia “futurista” degli esordi non potesse realizzarsi appieno se non attraverso la riscoperta delle radici, secondo quel tipico tracciato che in casi ben più emblematici prese il nome di Ritorno all’Ordine. Ma quale ordine in questo caso? Smontare Imprimatvr pezzo per pezzo, come un gioco per ricostruirlo in altro modo, partendo dagli esperimenti site – specific presenti già nelle passate edizioni, giungendo in questo modo alla consapevolezza della terza dimensione. Al di là delle frasi di rito – il dialogo fra l’antico ed il moderno – l’intento è stato quello di coinvolgere gli artisti in modo diretto e progettuale, ovvero affidando ad ognuno di loro una cappella della chiesa, intendendo con ciò instaurare una comunicazione inconsueta e personale con lo spazio, pur declinata secondo le varie sensibilità ed i diversi approcci stilistici. L’unica via percorribile è parsa quella di ribaltare la questione mettendo al centro dell’indagine estetica lo spazio – fisico e spirituale - coinvolgendo giovani artisti in grado di confrontarsi con fattori ben più complessi dei semplici attrezzi del mestiere e della conseguente perizia operativa. Si sposta in questo modo il punto di vista, l’attenzione un tempo rivolta alle opere diventa panoramica visione d’insieme, atmosfera diffusa, installazione totale, creatività dialogica sottoposta alla disciplina del confronto.
La Restaurazione dello spazio
Il nostro tempo presuntuoso, come fosse appendice di tutti gli stili del passato, si carica di responsabilità spesso vincolanti: la musealizzazione generale che ci vede custodi nostalgici di tutto l’accumulato e l’implicita paralisi creativa conseguente – tutto un fare contemporaneo che giudica sé stesso – rappresentano bene il paradigma di un presunto complesso ereditario riguardante il concetto di bellezza classica come perfezione perduta, arcana misura decifrabile ma incomprensibile nella sua essenza più profonda; è l’irraggiungibile sottoposto a restauro perenne, l’apice stilistico non replicabile nonostante la precisa sensazione che, ancora oggi, tutto ciò possa rappresentare una naturale premessa perpetua, la matrice inesauribile di ogni gesto artistico possibile. La storia dell’arte ci mostra, chiaramente riconoscibili, i tratti distintivi di questo travaso continuo, di questa processione dai nomi sempre diversi; tutti dettami dello zeitgeist rivelati all’orecchio del frammento di tempo successivo, passaparola arcano di codici tradotti a venire. Questa successione confidenziale, nel suo passaggio inflessibile, cataloga impolverando, ordina consumando, nobilita sacrificando, conquista perdendo (la materia che cede, la resurrezione della carne, la trasfigurazione) in un flusso di luce autoalimentata di provenienza celeste. Eppure l’eterno ritorno – trappola ed opportunità - scardina le nostalgie riempiendo e curando senza riposo gli incavi, le cornici vuote, i muri orfani, gli altari crollati ed i gonfiori ammuffiti. Diviene bello lo spazio rioccupato dalla vita, posteri battesimi e nozze mercuriali, celebrate in chiesa Castello, aleggiano tra ciò che è e ciò che fu. Kairos ben tollera l’incursione di un piccione o di una serpe, i fasti di un ruolo perduto, le flebo di cultura nella contemplazione delle crepe come nella metafisica della polvere; l’occhio si posa sull’attimo, quest’ultimo catturato nell’atto di trascendere la miseria dell’effimero sancita dalla lancetta sul quadrante, per farsi eco di confidenze superiori. Perché è il momento propizio, la clessidra resta sospesa un attimo prima di capovolgersi ancora nell’equilibrio luminoso del fato. Il tempo si contraddice se messo in discussione, Kronos retrocede a comando, muta come un ritratto in soffitta se le misure combaciano all’idea, se le preghiere prorogano le intenzioni piegandole verso la costruzione, spostando come un gioco di stelle doppie il tutto ad Orione, al di là della contingenza. Così s’è pensato di riempire il vuoto, omaggio ad altro disegno possibile, come un rito di passaggio nel labirinto presente.
Donato Novellini








Commenti 4

Cat
10 anni fa
Cat Fotografo
Compliments !
Barbara Ghisi
10 anni fa
Complimenti!
Lino Bianco
10 anni fa
Lino Bianco Artista
Congratulazioni e complimenti. Ciao,
Lino

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