La forza del colore fa corpo con l’obliquità del segno che taglia l’orizzonte facendolo pulsare di vita con aritmie che negano la regola dell’orizzonte piatto. Impossibile trovare un mare senza orizzonte, nelle marine di Togo. Impossibile trovare un orizzonte uguale a se stesso. Attraverso la sua opera, Alice-spettatore entra in un mondo parallelo in cui l’orizzonte non è fatto dall’unione tra cielo e mare ma è il punto di fusione tra pennello e tela, tra colore e canapa, tra acrilico e setole: varco verso un infinito fatto di acqua. Elemento che ha in sé la potenza dell’energia vitale, l’acqua scorre, si rigenera e rigenera, come un liquido amniotico incorruttibile si fa pancia accogliente e materna.
Un mare che s’insinua come lava incandescente tra gli anfratti delle rocce, preme, si gonfia e poi scorre veloce come sangue caldo nelle vene del mondo. Muleta impertinente di una rappresentazione liturgica, copre gli argini per scoprire il mistero della feconda polisemia dei suoi fondali offerti in rossi piegati da velature di bianco e linee di nero che rifilano il senso della risacca ematica di un solido mare.
Qui e ora è impossibile pensare a radici ben piantate nella terra: le vere radici viaggiano su linee orizzontali che incrociano direttrici verticali, s’incastrano, si abbracciano e si allontanano di poco, qualche rosso più in là, per tornare a intrecciarsi a un blu profondo e poi perdersi in un nero improvviso. Ecco, là, proprio nell’incrocio dei verdi impastati al marrone, dove il rosso lascia strisce di bianca spuma appena sbavata, là le radici s’inerpicano verso l’alto. E tornano a galla, finalmente.
Angela Manganaro
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