Il corpo solitario nell'autoscatto fotografico a cura di Giorgio Bonomi
Mostre, Roma, 21 February 2013
“Autoritratto”, “percezione di sé”, “identità”, “allo specchio”, e molte altre definizioni, per quel concetto di “autorappresentazione” che l’artista, da sempre, ha tentato.
Qui, seguendo l’impostazione del recentissimo libro del curatore, Giorgio Bonomi, Il corpo solitario. L’autoscatto nella fotografia contemporanea, Rubbettino Editore, ci concentriamo su artisti che, con la fotografia hanno messo in pratica le modalità dell’autorappresentazione, evidenziando soprattutto una poetica di “solitudine”.
Si parte dal proprio corpo come elemento primario del sé e, soli con se stessi, si ricerca una rappresentazione che può essere “reale” o “possibile”, tragicamente data o felicemente ipotizzata.
Da questo le varie differenziazioni con cui abbiamo raggruppato gli artisti, ben consapevoli che ogni classificazione è troppo stretta (o troppo larga) ma tuttavia utile per l’economia del discorso.
Per “autorappresentazione” intendiamo tutte le forme possibili con cui questa può realizzarsi con la fotografia, dall’autoscatto vero e proprio (con il temporizzatore, con la macchina fotografica in mano, con il flessibile, con il telecomando) alla fotografia realizzata da un assistente il cui compito è meramente esecutivo; per il video, vale lo stesso discorso. Inoltre abbiamo considerato tutte le possibili “autorappresentazioni”, dal corpo intero a parti di esso.
Crediamo che molte siano le cause che contribuiscono al fenomeno: sicuramente la grande presenza della fotografia e del video nell’arte degli ultimi decenni e l’uso che il corpo, e spesso il proprio, ha avuto dalla body art in poi.
Negli ultimi anni sembra apparire un modo nuovo di riflessione sulla propria identità, sul proprio corpo, sulla conoscenza di sé. Finito lo “scandalo”, finita la necessità ontologica di una autodefinizione, l’artista ha cominciato a indagare su se stesso come oggetto di conoscenza, da un lato, e come soggetto di narrazione, dall’altro: la metodologia dell’autorappresentazione è apparsa la più funzionale e la più appropriata per simili operazioni; la stessa componente narcisistica, certamente presente, assume un valore diverso se leggiamo il mito greco non come esempio di futile vanità (Narciso muore affogato o di consunzione, a seconda delle versioni, perché innamorato di sé) bensì come esemplificazione dell’operazione del conoscere, cioè il percepire l’altro da sé (ciò che sta davanti al soggetto conoscente) e comprenderlo (che, etimologicamente, significa “prendere insieme”, “afferrare”), per cui Narciso muore nel tentativo di “afferrare” la sua immagine “riflessa” sull’acqua proprio per conoscere se stesso, cioè con l’“autoriflessione”, e si consideri che possiamo conoscere la parte più significativa del nostro corpo – il volto – solo con lo specchio, che ci “riflette”: con ciò si evidenzia che il desiderio di conoscere – si conosce sempre quello che non si conosce, l’ignoto – comporta rischi estremi, fino alla morte, come insegna anche l’altro grande mito sulla conoscenza, l’Ulisse dantesco.
È evidente che in questa odierna società, sempre più spersonalizzata e basata sull’immateriale, il percorso di riappropriazione non può che partire da se stessi e dal proprio corpo: l’autorappresentazione, quindi, permette di evitare mediazioni e funziona come “specchio”.
Un altro dato interessante consiste nel fatto che, tra gli artisti che usano l’autorappresentazione, sono prevalenti quelli di genere femminile; per spiegare il fenomeno possiamo ricorrere a tutte le categorie indicanti le caratteristiche femminili: intimità, riservatezza, immediatezza, pudore, e così via, se non le interpretiamo in modo mellifluo e se accettiamo la lezione del femminismo più accreditata che prevede non l’uguaglianza bensì l’esaltazione delle differenze di genere.
Vogliamo dimostrare, inoltre, come la poetica dell’autorappresentazione non si concentri solo sulla solipsistica conoscenza di sé e ricerca della propria identità. Molti artisti, al contrario, con la tecnica del travestimento – ironico o drammatico, è lo stesso – mettono in luce l’impossibilità pirandelliana, ma già eraclitea, di una netta definizione di identità, sia nel senso di “io” che di “altro”; altri ancora usano l’autorappresentazione per un discorso narrativo tanto con una sola immagine, quanto con una teoria di sequenze; altri, infine, tentano di esplorare nuove vie e nuovi territori.
Da ultimo, ma a rigor di logica sarebbe la prima domanda, dobbiamo chiederci: perché proprio la metodologia dell’autorappresentazione? Riteniamo che, oltre alle motivazioni sopra esposte, questa forma di rappresentazione/espressione permetta all’artista di unificare soggetto ed oggetto senza mediazioni e di usufruire di una completa “solitudine” nell’atto creativo. Se, infatti, quando l’artista riprende una realtà altra con la camera fotografica, abbiamo l’ingranaggio di tre elementi – il soggetto che riprende, la macchina, l’oggetto ripreso – con l’autoscatto il primo e il terzo si unificano quasi fagocitando, per così dire, il secondo. Tutto ciò permette di evitare, almeno a livello concettuale e metodologico, ogni interferenza esterna, positiva o negativa, e l’autore si trova “solitario” e carico di una responsabilità, etica ed estetica, maggiore e con una dose assai più ampia di rischio: ma la sfida in molti casi, come cerchiamo di dimostrare, ha dato risultati assai interessanti.

Centro Luigi di Sarro, Roma

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