Ispirato dalla poetica dell’objet trouvè, contaminata dalla fascinazione per certa cultura vintage e da una sempre crescente attenzione nei confronti degli stimoli offerti dalla storia dell’arte, l’artista propone una “rilettura enigmatica” di alcune tra le riviste e le pubblicazioni periodiche più rappresentative del nostro tempo, come Vogue, Cosmopolitan, National Geographic, solo per citarne alcune.
Un’operazione che mette in campo molteplici sfaccettature di una stessa medaglia, andando a toccare tematiche che spaziano dalla sociologia, alla politica, alla filosofia, fino alle profondità esistenziali della contemporaneità, mantenendo sempre viva l’attenzione verso le potenzialità comunicative del linguaggio artistico. I periodici sono infatti quasi un pretesto, un emblema dell’informazione onnivora e a tratti crudele che racconta una verità deformata dal bisogno di plasmare le opinioni, i pensieri e il gusto del grande pubblico. L’artista interviene, dunque, a manipolare a sua volta il potere informante della carta stampata, invertendo la polarità della notizia e decodificando, attraverso una semplice azione di “sottrazione”, un messaggio più aderente alla realtà.
Coerentemente con l’argomento trattato della rivista, con la sua denominazione e con l’immagine presente in copertina, Giangrande sovverte le regole della narrazione e racconta una nuova storia “mutilando” la rivista. Attraverso un’azione aggressiva, compromettendo cioè la normale leggibilità del periodico, l’artista induce un cortocircuito percettivo che sublima il significato dell’azione stessa. Ogni rivista infatti è privata di una determinata percentuale di area che corrisponde alla medesima percentuale di un informazione che si sceglie di divulgare e la cui natura è strettamente collegata a quella della pubblicazione. Così per esempio si avrà Vanity Fair ritagliata in proporzione alla percentuale mondiale di consumatori di cocaina, oppure Life privata della percentuale corrispondente ai suicidi avvenuti nel mondo nel 2009.
Seguendo questo processo, indicativamente tautologico rispetto al linguaggio mass mediatico e doppiamente codificato dall’intenzione estetica di destabilizzare lo sguardo e dalla volontà di affermare il potenziale sovversivo dell’indagine artistica, Michele Giangrande gioca con la sua abilità di artista mimetizzando, nell’intera produzione, non solo colte citazioni rispetto all’opera di grandi artisti (si pensi ai tagli di Fontana o alle dissezioni di Hirst), ma soprattutto riferendo l’esito di questo procedimento alle leggi della scultura classica che affermava se stessa proprio nell’eliminazione del superfluo dal blocco di marmo. In tal senso, dunque, le riviste si presentano come delle vere e proprie sculture, anzi ancor di più come dei reliquari autoreferenziali: a completamento dell’opera, infatti, i periodici sono incorniciati in passepartout delle dimensioni originali, in modo da rendere ancora più evidente l’amputazione subita, e inoltre ogni cornice è corredata in basso da una targa di alluminio che porta in calce la motivazione della percentuale sottratta.
% si presenta, quindi, come un momento di verifica, una mostra in cui convergono le maturazioni creative dell’artista, che riesce a coniugare la complessità delle implicazioni concettuali del suo lavoro con un linguaggio sempre più raffinato e risolutivo.
di Francesca Defilippi
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