La pittura di Armando Ostuni, sospesa fra iconismo e aniconismo, appartiene a pieno titolo alla riflessione, che a volte è divenuta scontro violento nei decenni trascorsi, intorno al tema della figura e alle sue declinazioni pittoriche. Non si tratta, scrive Danilo Eccher nell’introduzione a Arte italiana. Ultimi quarant’anni. Pittura iconica (Electa) – della vecchia polemica fra astrazione e figurazione, ma di quella - interna alla stessa pittura di figura - «fra un’immagine di memoria, evoluzione naturale di una sedimentazione storica intesa come patrimonio dinamico e, dall’altro lato, un’immagine sperimentale, luogo privilegiato di ricerca visiva e di rinnovamento artistico».
Due scelte estetiche molto diverse, evidentemente, se la prima si salda alla tradizione culturale di un’arte intesa come storia dell’arte, e la seconda, cui la pittura di Ostuni appartiene, che sceglie la via più impervia, ma forse la più stimolante per il pittore, della domanda sul significato più profondo dell’arte, un significato che possa rendere attuale la proposta artistica e che magari riconduca i simboli universali presenti nella sua pittura alla coscienza contemporanea. Così, ad esempio, la premonizione letta nel volo degli uccelli, o il ricorso ai legacci fisici che talvolta imprigionano le immagini dell’artista, possono essere il perenne anelito alla libertà umana che lotta con ciò ch’è scritto nel destino, ma possono anche investire istanze politiche ed etiche che appartengono alla cronaca di questi anni.
Se dai soggetti della pittura - iconismo-aniconismo - o dalla scelta di campo all’interno dell’iconismo fra quale delle due pitture di figura scegliere, come si è evidenziato sopra, si allarga adesso il campo al confronto fra la pittura e le altre arti, ebbene l’arte di Armando Ostuni è la conferma del ritorno fiducioso alla “pittura-pittura”. Dopo l’innegabile primato di tanti secoli, era stato messo in crisi lo status di mezzo espressivo eccellente per quest’arte, surclassata più nell’ideologia che nella prassi di molti, dalle novità ed anche, a volte, dalla babele dei linguaggi. Decantasi quella fase, la pittura stessa si è riproposta con la dignità di mezzo espressivo accanto agli altri mezzi espressivi, e non più al di sopra degli altri mezzi. Ma dalla crisi essa è venuta fuori con uno “sguardo differente”.
Di certo, infatti, tale pittura (che vanta tra i massimi rappresentanti Concetto Pozzati, Valerio Adami, Giuseppe Gallo), la pittura di Ostuni nel caso specifico, ha abbandonato il rapporto mimetico con la realtà, l’istanza riproduttiva o quantomeno rappresentativa del mondo. Già alcuni dipinti della stagione precedente in cui Ostuni proponeva - si direbbe con un termine preso in prestito dal Realismo francese - tranche de vie, ebbene, in essi frammenti di paesaggio urbano si stagliavano contro un cielo-non cielo, una superficie astratta da cui non filtrava la luce del sole. Il passaggio successivo erano poi le visioni metafisiche, assemblaggi di oggetti in sé riconoscibili, ma ascrivibili alla surrealtà dell’arte e non certo riconducibili ad una qualche realtà terrena.
Ostuni privilegia oggi il sintetismo concettuale delle immagini: ed ecco come le neoavanguardie sono entrate anche all’interno di un uso abbastanza tradizionale del mezzo pittorico (fatti salvi alcuni discreti inserimenti oggettuali). Nella sua pittura le immagini non rappresentano un fatto, non raccontano in sequenza narrativa, ma in profondità, ossia nello scavo che parte dalla figura e ne indaga le stratificazioni culturali. La sua pittura, che definire semplicemente iconica è riduttivo, perché spesso approda ad un’immagine prosciugata, non si riduce all’apparenza fenomenica, al qui ed ora: se questa pittura la si guardasse come immagine percepita nel rapporto figura-sfondo non si comprenderebbe la sua valenza culturale, ma si rimarrebbe alla qualità grafica dell’esperta combinazione dei colori, dell’armonica composizione delle forme. Si farebbe torto, insomma, all’intelligenza visiva che vi è sottesa. Un grafico combina forme e colori, un artista condensa in imago le stratificazioni ontogenetiche e filogenetiche del sé e dell’umano.
Geroglifici e civette, voli di uccelli (gli si può accostare lo scultore Antonio Paradiso che ama lo stesso soggetto), segni ancestrali come i labirinti, vegetazioni e polluzioni, grafismi, che riducono all’essenziale, quasi all’ermetico, il linguaggio, sono resi à-plat, laddove a volte solo un circuito di segni fa vedere con la mente la profondità, o solo un’ombra il volume presunto. La pienezza di questa pittura è data dal colore. L’artista non a caso - dati i riferimenti all’antico nei titoli e nei soggetti - ama il rosso pompeiano, l’ocra, l’azzurro… Il pittore sceglie se dare alle figure un maggior grado di morfismo (cfr. Illegittimo impedimento), un grado medio (cfr. Codici) o un grado basso (cfr. Ricomposizione): e però le forme di natura e cultura, non importa a quale livello rappresentativo appartengano, vanno comunque decriptate; dal segno bisogna risalire al denotato: mai questa pittura, anche quando è molto appariscente, si autocompiace, ma sempre invita ad andare oltre.
Giusy Petruzzelli
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