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Un universo epico, leggendario, fantastico e caleidoscopico, popola, da sempre, la pittura di Vincenzo Claps: artista che come Alberto Abate e come Carlo Maria Mariani, ha fatto del “circuito del mito” (e strettamente di questo, a livello di obiettivo di riferimento, a prescindere dal tipo di espressione pittorica da lui scelta, per trattare la figura) il “modello archetipo” dal quale attingere la sostanza misteriosa, affabulativa, visionaria e strabiliante delle sue immagini, eccezion fatta per alcune opere dove la “portata semantica” risponde a un “codice espressivo” di natura intimista (Mater, olio su tela) o di tipo spirituale (Crocifissione, inchiostro di china su carta).
Occorre, tuttavia, precisare che nella pittura di quest’artista non c’è la stessa funzione ideativa, creativa, metapoetica e rappresentativa della realtà, e non c’è, neanche, un’uguale ricerca della forma, come in Carlo Maria Mariani, il quale - ispirato alla forma ideale della bellezza neoclassica - indulge, nei suoi quadri, in maniera romantica, nell’esaltazione accademica della pittura del passato e non c’è, tantomeno, nelle opere di Vincenzo Claps, un’analoga “memoria estetica” della raffigurazione classica della figura, come nel caso della produzione pittorica che è stata di Alberto Abate: fautore di nuovo stile della pittura, nello stesso tempo, di genere orfico e gotico.
Diciamo che si scorgono, piuttosto, nella pittura di quest’artista, la tensione e gli afflati di un suo intimo bisogno di decrittare la realtà a partire, sì dal mito, meno dai classici osannati della pittura accademica e molto di più, e ancor meglio, invece, da una sorta di locus amoenus (inventato e concepito dalla forza del suo pensiero) che appartiene a un “sistema immaginativo” e fantastico dove la bellezza vive in perfetta simbiosi e interdipendenza con una percezione totalmente illusoria e chimerica della natura (Gufo, olio su tela).
Da questa sua scelta – in qualche modo - rivoluzionaria, rinnovatrice, libertaria e ribelle, di concepire la creatività umana, deriva, di conseguenza, la maniera di spaziare, a tutto campo, tra i diversi linguaggi della pittura e, di conseguenza, scaturiscono i suoi ricorsi: sia a una “visione sintetica” della figurazione, in cui l’oggetto e scomposto e ricomposto in una stessa immagine (Ritratto, olio su tela e tavola e Clara Clara mentre nuota nel notturno mare di agosto, olio su tela) e sia a una “dinamica futuribile” nella quale diversi soggetti e oggetti rientrano nella stessa “scena espressiva” (Volo, olio - collage su tela). Cosicché, in questi casi eccezionali e particolari al tempo stesso, la pittura di Vincenzo Claps esprime, per se, un pretesto tecnico per manifestare l’impeto irruente del suo “fare creativo” e l’esaltazione della modernità, che non concepiscono, ambedue, i potenziali limiti esistenti tra: il reale e il surreale, il persuasivo e l’irrazionale, il paradigmatico e il concreto, l’onirico e il fantastico (Paesaggio musico, tecnica mista su tela).
Dobbiamo dire che Vincenzo Claps possiede una sua autonomia e una sua originalità di linguaggio, di marca più propriamente espressiva e informale, rispetto a quelli che sono stati i fenomeni (attigui tra loro al tempo della loro manifestazione iniziale): della Pittura Colta (teorizzata da Italo Mussa), dell’Ipermanierismo (Italo Tomassoni), del Citazionismo e dell’Anacronismo (Maurizio Calvesi), del Magico Primario (Flavio Caroli), dei Nuovi (Renato Barilli) e della Nuova Maniera Italiana (Giuseppe Gatt).
Fenomeni, questi, che hanno imperato, in maniera particolare, negli anni ’80 del Novecento. E che ancora adesso hanno tra i maggiori e indiscussi protagonisti (per le intime connessioni che, i loro dipinti, possiedono con le “poetiche del mito” e, più in generale, con la “narrazione fantastica”): Paola Gandolfi e Luigi Ontani, ai quali si è aggiunto - più di recente - Salvo Russo, che lo storico dell’arte, Arnaldo Romani Brizzi ha definito come l’artista contemporaneo che ha intriso di sapienza e di erudizione la sua scelta narrativa.
Una definizione questa che potrebbe essere pure utilizzata, in qualche maniera, a Vincenzo Claps: la cui pittura si connota per un genere - assai essenziale - di “affabulazione fantastica” (Perugina, olio/tela su tavola) che rimanda a una copiosità e a una molteplicità di elementi estetici e stilistici (Cometa Romana, olio su tela) che vanno - nel caso specifico di quest’artista - dall’Espressionismo che sancì - nell’Era più alta del Concettuale - il ritorno alla manualità pittorica e alla gioia del colore, fino ad abbracciare la “surrealtà simbolica” della pittura (Sirena Clara, olio su tela) e la “testimonianza metempirica” dello spirito (Ritratto dell’amico già morto, tecnica mista su tela). Che è, poi, quella stessa “testimonianza metempirica”, che trova nell’idea – usando le parole di Giancarlo Calciolari, scrittore d’arte e cifrematica - il “sostrato corporeo dell’attività sensitiva in sede estetica” (Re nudo, olio su tela).
Inutile negare, in ogni caso, che Vincenzo Claps ben si distingue, sia dagli artisti cosiddetti della “memoria” e sia, anche, dagli artisti che – in anni recenti - Achille Bonito Oliva definì, in maniera molto autorevole, del ritorno alla “pittura-pittura”. È il caso, ad esempio, di Sandro Chia, con il quale l’artista lucano condivide sia la maniera di esaltare, in forma ampollosa, i contorni della figura e sia, anche, una forma di pathos che lo porta a produrre delle “tele olezzanti di pittura” (usando, con ciò, il pensiero, il concetto e le parole dell’artista fiorentino che è stato autorevole fautore della Transavanguardia, con Francesco Clemente, Mimmo Paladino, Nicola De Maria ed Enzo Cucchi).
Dai “pittori della memoria” Vincenzo Claps si differenzia, in particolare, perché pur richiamandosi a un analogo background culturale di tipo neo-umanistico e a una somigliante maniera di “contaminare” le iconografie classiche, ha attuato un suo modus operandi senz’altro più selvaggio e per certi aspetti, persino, primigenio, provocatorio e dirompente, in termini di “sviluppo figurativo” e di “scelta compositiva”fatta sul piano prospettico dell’opera (Minotauro, olio su tela).
Si tratta di una maniera di operare, la sua, che rimanda, in alcuni casi, al topos poetico (immateriale e astratto) di una forma stilistica sviluppata all’eterna ricerca del pittogramma primordiale da cui trae origine la figurazione tutta e che, in altri casi, rimanda, piuttosto, alle forme estetiche dell’archetipo universale (“espressione semantica” se così vogliamo dire - prima ancora che “manifestazione verbale” e “rivelazione figurativa” - della radice comune del produrre cultura e del manifestare il pensiero umano) che quest’artista, nel suo “intimo creativo”, percepisce appartenere, in maniera molto forte, a una sorta d’ideogramma primitivo, piuttosto, invece, che alla maniera in cui i pittori hanno, via via, trattato - nel corso dei secoli - la figura umana, in forma più o meno espressiva e dettagliata (Eva, olio su tela).
Ad esempio, sono prova di tutto ciò, i “disegni preparatori” delle opere plastiche che Vincenzo Claps realizza, nell’immediato, in maniera alquanto parca e contenuta (Violetta, tempera su legno) e che - ancor più – intenderebbe, però, egli, realizzare in un prossimo futuro (Progetto per scultura, collage su tela; Oriana, collage su tela e Stella, collage su tela). Si tratta di potenziali sculture che rappresenterebbero il naturale “prolungamento fattuale” della sua attività creativa, oggi, ancorata, in modo rigoroso e inflessibile, ai codici dell’ornato e del colore (Notturno Re, olio su tavola).
A parte queste forme di ricerca e di sperimentazione artistica, senz’altro singolari e intriganti, ma comunque isolate nel panorama complessivo della sua produzione creativa, bisogna rilevare che Vincenzo Claps attinge (in maniera più imperativa e senza dilazioni estetiche rispetto ai “pittori della memoria”) alle fonti del mito (Il Sacrificio di Aronne, olio su tela). E, cioè, egli si rivolge a quelle “sostanza immaginifica” dei luoghi (altrimenti definito come Genius Loci) che, per secoli, si è manifestata in “forma narrativa/orale” attraverso il racconto (Encantado, olio su tela) e dopo, attraverso la pittura, in “tipologia descrittivo/visuale” (Il Diavolo Pittore, olio su tela; Il Gatto di Cleopatra, olio su tela e Satiro Pan, olio su tela).
Per rimarcare questo concetto, si tenga pure conto, a questo riguardo, che il Genius Loci appare in alcune pitture parietali degli scavi archeologici di Ercolano, sotto forma di serpente, che si avvolge attorno ad un altare, per divorare l’offerta sacrificale. Si tratta, dunque, di un “impianto semantico” molto antico, che associa alla proposta pittorica, un valore apotropaico, di allontanamento degli spiriti cattivi, perché come riferisce l’autore latino Persio (I sec. D.C.): “Dipingere serpenti sulle pareti serviva a proteggerle dal sudiciume, come a indicare che esse erano sotto la tutela del nume”. E Vincenzo Claps, riprende proprio questa sorta di Genius Loci (tradotto in forma, in segno e in “potenza espressiva” della rappresentazione) che attesta, non solo la sua attenzione particolare verso la semantica della pittura, ma anche verso quella sorta di eclettismo stilistico che, secondo Achille Bonito Oliva, ha sfidato la globalizzazione del linguaggio per preparare l’artista contemporaneo (come afferma il teorico della Transavanguardia) a un fenomeno di meticciato culturale senza precedenti.
Ci piace, inoltre, associare l’odierno stimolo immaginifico, che muove il pennello di Vincenzo Claps, a quelle storie di streghe, di fate, di eroi, di dame, di cavalieri, di monachicchi e di lupi mannari che, da fanciullo, gli sono state tramandate, dai nonni, dai genitori, dagli zii, dagli amici e dai conoscenti: intorno al camino, nella sua nativa Avigliano. E che hanno funto, di sicuro (come non ha indugio a sostenere la moderna pedagogia) da vero e proprio impulso creativo e da incentivazione infantile, per quello che sarebbe stato, poi, il suo divenire artistico.
Un mondo, insomma, quello dei prodi e degli infingardi che popolano i poemi epici e le saghe, ma anche dei ninnoli, dei gingilli e dei balocchi, insieme con il vasto universo delle “forze magiche” e sovrannaturali (incarnate dall'artista, ripetiamo, con l’immagine del serpente tentatore) che Vincenzo Claps ha trasposto e “sublimato” in maniera candida, nei suoi quadri, in alcuni casi sfruttando le immagini dei moderni cartoni animati (Clarabella, olio su tela) e in altri casi, invece, mostrandoci (come non ha indugiato a rilevare il critico dell’arte, Raffaele De Grada): le difficoltà, i limiti e le contraddizioni delle mutazioni antropologico/culturali, subite dalla nostra società, a contatto diretto con la modernità e con la sua complessità collettiva (Ritratto di Manhattan, olio su tela).
Questo significa, anche, che Vincenzo Claps riesce a creare delle immagini (che rappresentano dei veri e propri corpi semantici affabulativi, dai contorni e dai caratteri, a volte, mitopoietici e altre volte, ancora, favolistici) che facendo salvo il mezzo mcluhaniano (nel caso specifico quello del disegno e del colore) arrivano a costituire una maniera potente, utopica, illusoria e chimerica, per esaltare (condicio sine qua non, senza la quale non si riuscirebbe a manifestare la reale “potenza espressiva” dell’opera d’arte) i caratteri narrativi e visuali di una pittura, che se trasposta all’oralità e alla scrittura, troverebbe il suo naturale corrispettivo nel racconto, nella favola, nella fiaba, nella novella, nell’epopea fantastica e nelle leggende, che hanno popolato, e che popolano, il meridione d’Italia (Satirello, olio su masonite; Notturno Re, olio su tavola; Re Federico acquoso, olio su tela e Il pasto della Medusa, olio su tela).
Aspetti, tutti questi, che rappresentano un’esplosione di fantasia e uno scoppio di creatività (Yala, olio su tela) che l’artista sviluppa dentro un “ambito ideale” di riferimento: o di tipo astratto (Topos, collage su masonite) o di modello moderno e contemporaneo (Clarabella, olio su tela) o di genere cosmopolita e metropolitano (Ritratto da Manhattan, olio su tela). E per ottenere questi effetti sbalorditivi e sorprendenti sul piano estetico, Vincenzo Claps fa ricorso, nelle sue opere: o alla sovrapposizione di carte (e questo lo fa, per la verità, molto di rado, tranne che non si tratti di “disegni preparatori” delle sue sculture) o a un genere “incandescente” di colore, nello stesso tempo luminoso e luminescente, sviluppato nelle nuance del giallo, del verde, del rosa, del viola e dell’azzurro, e percepibili anche nel chiaro-scuro delle ombre serali.
Questo genere di tavolozza cromatica ci consegna, insomma, un artista che nella cosiddetta “pittura/pittura” ha creduto - e crede ancora oggi - in maniera molto forte. Un pittore, insomma, che procede “a scavalco” di diverse classi culturali, di più generi estetici, di molteplici categorie stilistiche e di assai diversificate tipologie espressive. Un artista che si è formato con Domenico Purificato (all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano) dal quale ha appreso, in maniera indiscutibile, tanto il necessario atteggiamento culturale con il quale rapportarsi alla realtà concreta e pragmatica della vita e tanto, anche, la maniera giusta con la quale far rivivere, in forma empirica ed emotiva (sui propri piani prospettici dell’opera): la dimensione fenomenica della natura, traslata nella forma fantastica (Paesaggio Musico, tecnica mista su tela), che egli scandaglia, viepiù, attraverso un gioco di piani su piani, facendo ricorso, se necessario, a effetti di “metapittura” (Quadro semplice, olio su tela: Perlina, olio su tela e Metafisica, olio su tela).
Si tratta di dipinti, in questi casi, dove l’immagine di una tela (dipinta nella sagoma di un quadro, sviluppato dentro il quadro stesso, o con un “effetto a specchio” dove un’immagine risulta essere speculare a un’altra) funge: o da “metalinguaggio semantico” di un pensiero carico di simboli (Gemma, guazzo e Paesaggio Musico II, tecnica mista su tela) o di un concetto romantico (Ritratto infelice, tecnica mista su tela) che ci affida la natura di un artista ribelle, indomito, che non si presta a condizionamenti di sorta e che ha scelto di vivere in provincia perché, come diceva il giornalista Gianni Brera, “solo in provincia si coltivano le grandi malinconie, il silenzio e la solitudine” che in Vincenzo Claps sono indispensabili per dare forma, simbolo, sostanza cromatica e figura alle parole e alle idee, che se ben usate – come voleva Albert Camus - fanno di ogni individuo o un artista, o un filosofo.
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