di Philippe Daverio
Giuliana Traverso è dal tempo d’una vita che fotografa. Ma è pure dal tempo d’una vita che insegna a fotografare. Per lei
una pratica discende naturalmente dall’altra e ne è a sua volta causa successiva: l’insegnamento non è mai un percorso
a senso unico, forma chi apprende e riforma chi insegna. Plasma e riplasma. Ed è quasi sicuro che la consapevolezza che
le è pervenuta dalle riflessioni necessarie alla didattica sia alla base della coscienza che ha negli anni elaborato sul significato
e sulla pratica dell’arte fotografica. Prima di tutto, prima dello sviluppo della pellicola, prima del gesto istintivo o
ragionato dello scatto, prima dell’impostazione delle inquadrature, viene la capacità di guardare. Il fotografo è prima di
tutto il portatore sano d’un occhio capace di guardare il mondo infinito e magico delle cose e degli esseri. Sicché un gatto
non è solo un animale domestico da accarezzare, è un felino che si muove, si stende, riposa, si posa. E solo se si indaga il
suo movimento prima di decidere lo scatto, si raggiunge il fine utile. Giuliana Traverso ha la capacità magica di trovare
la magia, non di generarla, il che ne farebbe una maga e non una antropologa poetica. Ha la capacità non di vedere ma
di guardare, di scovare, e in questa sua ottica, sia mentale che meccanica, di fermare l’immagine. La fotografia ferma
l’istante; e l’istante, si sa, non esiste, non è afferrabile. In questo dilemma fra l’istante che non può essere e il fermo immagine
che diventa concreto sta tutta l’ambiguità del suo operare. Ma la nostra coscienza, a sua volta, ferma l’immagine,
la scolpisce nella memoria. La questione della coscienza e la questione dello scatto sono similari. Lo scatto deve quindi
apprendere dalla coscienza a discerne il fondamentale dal futile, se vuole diventare utile alla rappresentazione o alla
narrazione. Così nasce la fotografia che non voglia da un lato essere immagine di natura morta e ferma e dall’altro non
si limiti ad essere mero fermo immagini della vita, dell’esistere, del perdurare e del consumarsi. Diavoleria vera e propria
quindi. Diavoleria bonaria s’intende. In questo senso il sunto della questione era già stato intuito da Goethe quando
scrisse il giuramento del dottor Faust a Mefistofele: Werd’ich zum Augenblicke sagen: Verweile doch, du bist so schön.
Se dirò in un batter d’occhio: dura all’infinito, che sei così bello, allora il mio compito sarà ultimato. E’ nel fare durare
all’infinito lo spazio senza dimensione dell’istante che sta il segreto del mestiere. E’ nel cogliere l’istante fuggitivo che sta
la pulsione poetica. Ci vuole fortuna nella vita, fortuna e talento, talento e abilità. La fortuna e il talento sono doni divini,
l’abilità è frutto dell’applicazione.
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