TAKE CARE (lunga degenza)
Di fronte a noi una scena, come un fotogramma bloccato di un film senza sonoro: una sedia, un lettino d’ospedale, e su di essi un malato e colui che se ne occupa. Non sono persone, però, sono parte di esse scolpite: la spina dorsale eretta e verticale sulla sedia assiste la schiena distesa sul lettino, se ne prende cura. Take care, questa l’opera con cui Antonella Gerbi partecipa al Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2011 in scena al Salone delle Esposizioni di Torino, e che ne rappresenta bene l’attuale ricerca artistica. A creare l’installazione presentata dall’artista concorrono diversi elementi perfettamente fusi insieme. C’è la parte scultorea, quella più tradizionale, sia in termini generali che nel percorso personale dell’artista, che nasce dall’esperienza dello scolpire e nel rapporto col materiale. E’ l’elemento dove domina la parte estetica. Le forme sono belle, armoniose, levigate, curate e realizzate così bene da sembrare calchi anatomici. Ma non lo sono. Sono frutto dello studio dell’anatomia, ma la forma reale è poi trasfigurata e direi fusa con forme naturali: il susseguisi di vertebre che definisce la colonna dorsale si trasforma nel retro in un sovrapporsi di piccole foglie, la schiena distesa è in verità una grande foglia allungata, le cui venature disegnano l’anatomia umana, con un interessante gioco di concavo e convesso. Ma la scultura qui non è sola, c’è l’ambientazione che la trasforma in installazione: il letto d’ospedale, il lenzuolo verde, la sedia da studio medico. Dalla loro commistione il terzo elemento dell’opera: l’atmosfera un po’ inquietante e ricca di sottili suggestioni, a volte contraddittorie ed enigmatiche. Assistente ed assistito sono legati da una cannuccia che ne unisce i destini e li rende dipendenti l’uno dall’altro. La posizione distesa della schiena suggerisce il bisogno di riposo, di abbandono, di un sostegno che non regge più, forse un gesto di pudore nel parziale coprirsi col lenzuolo. Di fronte la spina dorsale dritta, ferma di chi deve portare aiuto, di chi deve curare. Ma la cura è attenzione, consolazione o accanimento? In quei freddi oggetti di corsia c’è qualcosa di doloroso, forse l’idea della malattia che non lascia scampo e vince l’umanità, coinvolgendo e segnando allo stesso modo chi cura e chi viene curato.
La ricerca della Gerbi si conferma orientata nel non rinuciare al materiale classico e al lavoro dello scolpire, che dagli ultimi anni trae la principale ispirazione dall’osservazione della natura, soprattutto nelle forme allungate e sinuose di rami, foglie e radici, spesso fuse con le forme del corpo umano. Il livello tecnico dell’artista ha raggiunto una misura tale da superare quel’approccio un po’ violento e istintivo che caratterizzava le opere dei primi anni per uno stile più fluido, che il gesto abile fa sembrar facile e naturale. Da questa maturità tecnica, da questo arricchimento e apertura artistica, nascono opere complesse e suggestive che sembrano essere il giusto indirizzo futuro per questa giovane artista.
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