Trovare le parole
La casetta di Troviamo le parole è un oggetto di design in ceramica smaltata, da me acquistato, che elaboro in postproduzione trasformandola in uno spazio sonoro: l’aspetto familiare, rassicurante della casa, progettata per uso domestico, diventa il luogo che contiene ed emana le voci di abusi e soprusi che all’interno di un ambiente domestico ormai sempre più spesso si compiono, sia fisici che psicologici. Testimonianze tratte dalla vita di tutti i giorni che narrano di esperienze drammatiche di donne, bambini, adolescenti; non documenti di cronaca però, ma trasposizioni letterarie che da quei fatti traggono ispirazione e, credendo nella forza dell’arte della parola, da secoli smuovono le coscienze raccontando storie (per la scelta dei paragrafi sono partita da alcuni libri della mia vita appartenenti a periodi storici diversi, da Dostoevskij a Joyce Carol Oates, anche per sottolineare che questo problema non riguarda solo la contemporaneità, ma è sempre esistito).
La matrice letteraria è frequente nel mio lavoro; così anche in questo progetto lo spazio sonoro nasce da un collage di brani tratti da alcuni libri che raccontano di violenze universali nell’ambito domestico, non sempre riconosciute a livello sociale e politico; citazioni scritte che diventano voce, e che invitano lo spettatore all’ascolto di un sonoro che si diffonde nello spazio espositivo dal camino della casetta, un piccolo oggetto cosi come piccolo è un libro, che rischierebbe di scomparire alla visione se non fosse per le suggestioni delle parole che genera.
Tecnica
Installazione sonora:
- casetta in ceramica dimensioni 10 x 10 x 12 (HOME SWEET HOME, by Antonio Cos)
- impianto sonoro che diffonde una storia recitata realizzata da un collage di vari brani tratti da testi di narrativa; vedi il seguente
Joyce Carol Oates, Occhi di tempesta, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2005
Pag. 190 – 191 - 192
“Sì, penso di averli sentiti, a volte.
Mai davanti a noi. Per lo più in camera loro, con la porta chiusa.
Mio padre prende fuoco con facilità. Un tempo davo la colpa a mia madre, credevo che fosse lei a provocarlo, però sbagliavo, perché papà la maltrattava.
Sì, portava sciarpe, maniche lunghe per nascondere i segni. Ma io sapevo che c’erano.
Perché avevo paura, credo. Era più facile odiare lei.
Perché? Mamma non ne ha mai parlato.
Non lo ha mai criticato. Sapeva quanto lo amassimo, Samantha e io.
E’ mio padre, ed è Reid Pierson. Ecco perché.
Perché? Mamma aveva paura, suppongo. Paura che la maltrattasse ancora di più, che maltrattasse Samantha e me. E’ così che ha scritto nel diario, no?
Se avete letto il diario, allora sapete.
Penso di si, che sia andata proprio così.
No! Sto bene, non sto piangendo. Voglio andare avanti.
Sì, lo faceva. A volte. Per insegnarci la “disciplina”.
Non ricordo molto bene. E’ tutto vago, come un brutto sogno, o come qualcosa che hai visto alla televisione tanto tempo fa e hai mischiato con la vita reale.
Sculaccioni, quando ero piccola. Perché gli disubbidivo, penso.
A volte schiaffi, pugni, scrolloni. Mi prendeva per le spalle e mi scrollava come se avesse voluto rompermi l’osso del collo.
Oh, no! Credevo che fosse colpa mia, che me lo meritassi.
Lo credo ancora, suppongo.
E’ difficile cambiare quello che provi. Cambiare quello che pensi è molto più facile.
Perché? Perché papà ci amava. Ci ama.
Diceva che se non ci avesse voluto bene, non ci avrebbe punite.
Riesco a capirlo, davvero. Però è un modo di pensare malato, e sbagliato.”
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