Ante-inquietudine d'Anime in Post-sentenza
Indubbiamente l’epoca in cui si vive, intessuta tutta di quel subdolo malessere allo stato larvale che si avverte inconsciamente e che si traduce in un senso di incertezza e di insicurezza, così profondamente, da soffocare l’impulso più vitale del “vivere”, proietta la coscienza verso la dimensione dell’irrazionale, dove la mente può penetrare in virtù di una lucida veglia, per pescare in quella capillarità fragile di immagini, che permettono di ricostruire in simbolica rappresentazione la flora inesplorata dell’io profondo. Consideriamo ciò considerando la Pittura di Salvatore Gerbino, un giovane artista di Caltagirone, che rifugge da un linguaggio di facile prensione, per farsi interprete delle inquietudini dell’umanità. L’Artista che vive nell’orizzonte del suo tempo-limite, non può sfuggire agli stimoli e ai contenuti dell’attuale. Ma in Gerbino c’è di più; oltre agli spunti analitici di carattere psico-sociologico, che costituiscono, per così dire, la superficie, la crosta della sua pittura, c’è una esigenza di carattere psico-culturale, che ci immette in uno spazio intimo, in cui il dramma dell’uomo si accoppia a una tensione di ricerca intellettualistica, per cui arte e cultura costituiscono i simboli della più autentica dimensione umanitaria. Per gli artisti, come il Gerbino, di un certo impegno, la pittura diviene un mezzo eloquente per coinvolgere il fruitore non solo sul piano pittorico, ma anche e soprattutto sul piano culturale. La pittura, allora, non è più solo una esigenza di carattere estetico-formale, ma è qualcosa di più intimo; di più capillare, che viene a coesistere nella struttura organica e intellettiva dell’io artistico e, quindi, ad amalgamarsi e a plasmarsi alla segreta vitalità dell’artista. Il Gerbino ci immette in una atmosfera surreale, dove il dramma umano si dilata nella eco premonitrice di una tensione sismica. Un paesaggio lunare, lontano, risucchiato nell’abissale caos atemporale, costituito da strutture di vegetali: l’albero privo di foglie, libera dal fondo dei cieli una germinazione di figure indefinibili: membra umane; labbra; volti disfatti dal dolore: simboli, questi, della solitudine; della sofferenza; calvari segnati dal dolore, nel lungo cammino dell’umanità. Sono tele dense di “pathos”, trasudanti la drammaticità esistenziale “ab aeterno”, nella quale si intrecciano i contenuti della realtà attuale: intime contorsioni di rami che rendono l’“io” vulnerabile, coinvolto nel viluppo di alienanti imprevedibilità.
GIANNA PAGANI PAOLINO,
critico d’Arte – Roma.
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