autoterapia
sembianze di una figura umana con un uovo intero incastonato in ventre:
un’immagine della madre e della nascita della vita, secondo Maurizio
Ruggiano che lo elegge a cibo magico per un rituale di incorporazione
orale, celebrando così sia la simbiosi originaria madre-figlio sia il
successivo processo evolutivo che, assimilandone interiormente la
qualità, passa dalla dipendenza all’autonomia.
Un rito liberatorio - riconoscere il valore nutritivo della madre
e introiettarlo per restare in equilibrio - con cui Maurizio, nella
performance che scandisce il racconto del video Autoterapia,
ripercorre intuitivamente anche la fase dell’introiezione, considerata
dagli psicoanalisti un meccanismo essenziale nello sviluppo infantile
quando, contemporaneamente al riconoscimento di una realtà esterna,
il fantasma materno diventa una rappresentazione interiore.
Nell’opera l’artista mette in gioco se stesso, scoprendo a nudo la propria
vita personale e offrendo la propria storia al visitatore come un possibile
specchio. Sullo schermo scorrono le ragioni e la genesi di questa
mostra, ma anche il suo punto d’arrivo artistico ed esistenziale. Come
negli altri lavori esposti, Maurizio Ruggiano dimostra la sua confidenza
con i linguaggi contemporanei e ne rimescola liberamente il repertorio
piegandolo al proprio discorso. La sua cifra personale consiste nella
straordinaria capacità di essere diretto e nella sincerità con cui orchestra
l’insieme mirando al cuore espressivo delle cose.
Sullo schermo scorre un duplice flusso di immagini, a sinistra accelerato
come un blob incessante, a destra in tempo reale. A destra l’artista
compie il suo rito masticando lentamente i bocconi del “pupo”
femminile, mentre la propria storia emotiva attraversa in didascalie
essenziali lo schermo come una confessione guaritrice: “mi nutro della
madre – è lei che mi dà nutrimento - il padre è presente assente – io mi
distacco - …... - l’unico mio nutrimento è la madre – il contatto con il
padre è utile - mi racconta la sua vita – io sto ad ascoltare – parliamo
per ore – questo sembra riparare - qualcosa dentro – mi sento insicuro
con gli altri – il distacco dal padre – mi allontana dagli umani – l’amore
per la madre fluisce – l’amore per il padre ha trovato altre strade – le ore
seduto ad ascoltarlo – mi aiutano a ritrovare contatti perduti – la fiducia
è poca – ma sento la necessità di sentire il padre – il padre che ho
dentro – Rotto – Rotto - ora mi nutro degli altri – anche se con qualche
difficoltà - di riuscire a trovare affinità”.
Se nessuna parola oggi può colmare l’assenza originaria del
padre, che ha marcato una frattura relazionale con il mondo, il
riconoscimento dell’alterità e quindi della propria individualità passa
attraverso un rapporto attivo con il cibo maternale: divorare la madre
è al contempo un omaggio e una liberazione. Come ogni movimento
nel regime dell’interiorità, l’azione ha infatti un aspetto duplice,
contemporaneamente accoglie e distrugge, attivando un processo di
trasformazione. Sul piano simbolico, la trasformazione alimentare
corrisponde a una trasformazione psichica. Nel suo testo in catalogo
Claudia Bongiorno indica con chiarezza come trasformazione sia la
parola-chiave di ogni processo terapeutico. Lo è anche di ogni di ogni
procedimento artistico, che consiste appunto nel trasformare in discorso
estetico una materia grezza, anche e soprattutto mentale.
Qui, nel video di Maurizio, il discorso si fonda sulla contrapposizione di
tempi e spazi, io e mondo: al lento procedere, a destra dello schermo,
del rituale cannibalico nello spazio egocentrico dell’io, corrisponde nella
metà a sinistra il frenetico scorrere del mondo che cannibalizza ogni
giorno la nostra mente. Immagini di corpi, eventi, sesso, lotta, potere,
oriente, occidente, tratte dalla cronaca (dal sito web del quotidiano
La Repubblica), si accavallano vertiginosamente costringendoci a una
visione quasi subliminare. Un flusso continuo, pellicolare e senza scampo
che ci costringe nell’angolo della nostra impotenza a comprendere
quella storia in cui siamo immersi e dove ogni giorno anneghiamo. Solo
l’interferenza di un sentimento, di un’emozione privata, può sospendere
e rallentare questo tsunami elettronico, introducendo la dilatazione del
tempo soggettivo: un lungo amplesso d’amore oppure quel putto di
gesso che gira in tondo sul panorama degli eventi, come un monito e
un ricordo. Frammento decontestualizzato di una scultura di Benedetto
Civiletti, scultore palermitano dell’Ottocento, l’infante con il braccio
rotto, il suo cartellino di identificazione e la sua giostra desolata, è
il pendolo che segna un tempo del non ritorno, il tempo forse di un
enigma irrisolto. Bolle della memoria come la lunga sequenza di un
matrimonio d’antan, quello dei genitori dell’artista, storia familiare tirata
fuori dal cassetto, mille volte indagata per carpirne quel segreto da cui
trae origine il proprio destino.
“Continua” ripete ossessivamente una voce mentre le immagini
scorrono senza tregua e nell’altro lato dello schermo l’artista mastica
lentamente, a tratti con spavalderia, il suo biscotto sacro e apotropaico.
“Continua” dice la voce: incalzante come nell’atto amoroso, ma
anche subdola nella sua giaculatoria imperativa, perfino angosciante
in quella scansione senza tregua di un tempo e di un comportamento
che appaiono coatti come una condanna. Voce d’amante e voce di
burattinaio: amore e potere che fanno girare la giostra dell’esistenza, e
che spesso paradossalmente coincidono tirando i nostri fili di qua e di là.
“Continua” cosa? A guardare l’incomprensibile caleidoscopio del mondo,
a fare l’amore, a mangiare il proprio “pupo”? A ricordare, a soffrire, ad
anestetizzarti, ad oltrepassare, a rimarginare? “Continua” è l’elemento
sonoro che unisce le due metà dello schermo dove è rappresentata la
scissione tra spazio/tempo interno ed esterno al soggetto, infine il senso
di estraneità e separazione tra il sé e l’altro da sé che Maurizio ha
sempre avvertito come conseguenza del trauma e che da sempre cerca
di colmare attraverso il ponte dell’arte.
Alla fine non resta che l’uovo. Introiettato il corpo maternale, ne resta
integro il principio vitale e generatore. Nel museo culturale dell’umanità
l’uovo, forma unitaria che basta a se stessa e contiene il germe della
vita, è l’immagine dell’essenza del mondo e un antico simbolo di
rinascita. Anche nell’altra metà dello schermo si delinea un approdo: la
corrente vana di eventi e personaggi finalmente si arresta a un incrocio
di strade davanti a un manifesto strappato che sembra una vecchia
opera di Rotella, vi si intravede la figura di Gesù e il frammento di una
scritta amorosa. Come una bandiera di carta lacera, questa ‘pubblicità’ del mistero sacro nelle relazioni divine e umane segna l’asse di un
luogo di passaggio, un anonimo crocevia. Senza intenti religiosi
o devoti, Maurizio ci suggerisce così soltanto una verità semplice
quanto disattesa, che abita nelle pieghe del quotidiano, che non
difende dall’affanno ma resiste nonostante gli strappi e le ferite. Forse
ingenua, disarmante. L’amore come principio-speranza, unica chiave
dell’esserci, là in quella regione incerta “dove finisce l’arte, dove
comincia la vita”.
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