the mask and the face
Anziché fotografare il corpo altrui, infatti, entrambe utilizzano se stesse come protagoniste delle proprie fotografie, ma non si limitano a proporci autoritratti sulla scia della storia di questo genere figurativo. Lo fanno invece con la consapevolezza di compiere un’azione mistificatoria e nello stesso tempo ironica, ben diversamente, dunque, da quanto emerge dalle immagini di Francesca Woodman, un’altra fotografa che dell’autoritratto ha fatto il proprio campo di ricerca, nel tentativo di trovare una conferma alla propria identità.
L’identità è anche il tema della ricerca di Annarita Mantovani ( e del resto questo è il meccanismo psicologico che guida la creazione di un autoritratto), ma più che dell’identità personale si tratta di quella collettiva insita nella condizione femminile, della quale anch’ella è partecipe.
A differenza della Sherman, che talvolta cela il viso con mascheramenti e truccature, oppure della Woodman, che ricorre alle sfocature e agli effetti di mosso per velare le proprie fattezze personali, Annarita Mantovani si autoritrae senza infingimenti, se si eccettua il costume “di scena” ogni volta indossato e per questo ogni sua immagine fotografica può essere equiparata a una commedia (o meglio ad uno di quei tableau vivant tanto di moda a fine Ottocento), in cui si fa contemporaneamente autrice ed attrice.
L’abito volta a volta indossato, unitamente alla messa in scena volutamente artificiosa, hanno la precisa funzione di guidare il lettore delle sue immagini a intendere con immediatezza il tema di analisi, incentrato sempre sull’ambito sociale collettivo e soltanto di riflesso su quello personale.
Lo si evince con immediatezza da entrambe le ricerche qui presentate: “Far far away” del 2010 e “Sorelle d’Italia” del 2011.
“Far far away (Lontano, lontano da qua)” già dal titolo rivela il suo intento ironico nel presentarci come una favola la conquista della parità femminile, che ha condotto alla frustrante imitazione del ruolo maschile, anziché ad una condizione autonomamente strutturata. Le diverse immagini ci mostrano la fotografa indossare i panni della casalinga e della “Dark”, della tifosa e della animalista, dell’amante dello shopping e della sognatrice e, per finire, immersa in una vasca da bagno piena d’acqua.
Sulla medesima scia si colloca anche “Sorelle d’Italia”, che si presenta come un’indagine sullo stereotipo della femminilità. Mettendo a confronto fotografie del passato con le manifestazioni della femminilità odierna, ella intende dimostrare che a causa dell’ingerenza del consumismo, non si è trattato di un progresso fondato sulla parificazione dei sessi e dei ruoli, ma semplicemente di uno spostamento di funzioni e di una condizione esistenziale soltanto diversamente frustrante.
Tutte le immagini sono frutto di un’accurata sceneggiatura, che comprende la scelta adeguata dell’ambientazione e dell’azione, non tanto per rendere più realistica la raffigurazione, ma per enfatizzare la messa in scena e renderne più esplicito il ruolo retorico. Anche per questo motivo Annarita Mantovani non ha necessità di indossare una maschera, ma può esibire sempre il proprio volto. Il suo intento, infatti, non è di celare se stessa dietro le differenti manifestazioni della femminilità, in una ricerca sperimentale della figura che meglio trova corrispondente alla propria personalità, ma è piuttosto di mostrare attraverso il suo vero volto, interpretando i diversi personaggi, l’insidia celata nella moderna concezione del ruolo femminile.
Massimo Mussini
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