Fontanella disgregante per autoritratto
[ di Diego Mantoan ]
Uno zampillo d'acqua schizza improvviso dalla bocca, tanto che lo scherzo coglie di sorpresa. Il volto fa a tempo solo a porsi di sbieco, quasi a voler scansare il getto d'istinto. Parrebbe la descrizione di un dettaglio strappato a una sontuosa fontana barocca. Come in un gioco spensierato fra divinità marine, la ninfa dispettosa tormenta amorevolmente un tritone spruzzandogli dell'acqua in faccia. Nell'opera scultorea di Antonino Busà è tuttavia la maschera dell'artista stesso, apposta su un piano verticale, a far sgorgare il fluido spruzzandolo su un'altra rappresentazione del proprio volto posta in orizzontale. Il viso dell'artista è catturato nel duplice gesto di liberare un getto d'acqua che gli ricade nuovamente addosso. Più che il ritratto di una fontana, pare un doppio autoritratto nella guisa di fontana.
Nel secolo scorso vari artisti hanno sfruttato proprio l'idea di una semplice fontanella per spingersi in ragionamenti sul significato dell'arte per il nostro tempo, oppure in elucubrazioni sulla rappresentazione dell'artista contemporaneo. Fra le opere più significative del Novecento, la celebre fontana di Marcel Duchamp (Fontaine, 1917) è entrata nell'immaginario collettivo come origine dell'arte concettuale, per altri invece come peccato originale dell'arte contemporanea. Un urinatoio capovolto diventa ironicamente una fontanella, come quelle per abbeverarsi alla stazione cercando ristoro nella calura estiva. Se l'artista è capace di trasformare in fontana un pisciatoio, elevando ad arte un oggetto concepito per indicibili funzioni fisiologiche, allora perché non spingersi ad essere una fontana. Nel suo autoritratto come fontana (Self-portrait as a fountain, 1966-67) Bruce Nauman dimostra come la più elementare attività dell'artista possa essa stessa diventare un'opera d'arte. In una serie di undici fotografie a colori l'artista americano si ritrae a petto nudo, mentre osserva la parabola del getto d'acqua che fuoriesce dalla sua bocca.
L'opera di Antonino Busà si ricollega idealmente a questi precedenti giocando con la propria immagine duplicata e trasfigurata plasticamente in una fontana, vitrea come l'acqua che vi scorre grazie a una pompa meccanica. Questa piccola fontana sorregge il duplice autoritratto del suo autore: sopra a una struttura in plexiglas, le maschere in resina trasparente ricavate da una colatura sulla faccia dell'artista si contrappongono l'un l'altra. Il liquido vitale unito all'autoritratto plastico del volto ottenuto tramite calco dal vivo porta alla mente le creazioni di Marco Quinn, in particolare il proprio busto ottenuto con lo stampo riempito del suo stesso plasma congelato (Self, 1993). Entrambi esprimono il tentativo disperato di lasciare una traccia autentica del proprio passaggio terreno, ricopiando minuziosamente le fattezze caduche con un autoritratto strappato in negativo. Questa pratica si ritrova nelle maschere mortuarie realizzate per mantenere una raffigurazione attendibile e tridimensionale del volto ormai estinto d'ogni vita. La resina sottile con cui sono creati i volti pare replicare l'epidermide rinsecchita di una presenza ormai andata, prova ultima dell'esistente che fu. Più che provare la caducità dell'esistenza, le maschere di Antonino Busà vogliono esorcizzare la morte esponendola senza imbarazzo e cercando di riportarla in una dimensione di inevitabilità quotidiana, come ce la rammentano le facce sugli annunci funebri affissi ai muri di certe città italiane. Si tratta di una linea di ricerca che l'autore persegue da tempo con vari mezzi espressivi, traendo soprattutto spunto dall'iconografia religiosa che nei secoli presentava al popolo l'immagine terrena della morte.
Poste in relazione dal getto d'acqua, la maschera del primo volto dell'artista è alzata come in vita, la secondo invece coricata come in letto di morte. Vita e morte, i due volti rappresentano gli stati antitetici seppur consequenziali dell'essere, inseriti nella più ampia circolarità del flusso continuo dell'acqua. Un fluire che ricorda quello del tempo, il quale scorre incessante a dispetto delle singole vicende umane. L'acqua che bagna l'uomo e innaffia la terra è pura forza generatrice, venerata quale elemento vitale a cui erigere sontuosi monumenti. La normalità del rubinetto domestico ci ha privati di questa dimensione sacrale che, tuttavia, può essere ritrovata ascoltando il gorgoglìo brioso della fontana, reso ancor più ipnotico dal monotono tiraggio della pompa a motore. Lo spruzzo e il suo riverbero sonoro creano una tensione sottile, capace di immergere l'anima in una dimensione limpida e fragile, quasi in equilibrio su un filo tirato a mezz'aria. La relazione fra i due volti dell'artista, creata dal rivolo continuo, sembra evocare la sensazione di uno spirito acquietatosi in preghiera e in grado ormai di osservare il proprio corpo mortale dall'esterno. La scultura di Antonino Busà possiede una compostezza serafica e una concentrazione d'energia vicina alla statuetta del Buddha di Nam June Paik, compita in preghiera di fronte alla propria immagine specchiata sullo schermo televisivo (TV-Buddha, 1976).
Al netto di tutti i possibili richiami all'arte più recente, nella concezione di quest'opera Antonino Busà lascia trasparire il suo spirito siciliano, imbevuto di visioni barocche. Dal chiaroscuro estrae un solo estremo, adottando il nero pece per precedenti lavori che qui lascia invece spazio all'assoluta trasparenza dei materiali scelti, mentre il gusto per lo scherzo di forme e composizioni si sposa con una vena di ironia rivolta ad alleggerire il peso dell'esistenza. Le linee pulite si accostano invece a un rigore quasi minimalista che riporta la creazione in una dimensione essenziale.
La fontanella col duplice ritratto di Antonino Busà sembra volerci chiedere, quando sia stata l'ultima volta che ci siamo fermati a osservare lo scorrere del tempo.
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