Eliadi

Eliadi

Il progetto che intendo presentare è stato sorretto da tre costanti.

Cenide, Adone, Sisifo, Tantalo, Filira e Chirone, le Eliadi.
La prima costante è stata, come pretesto narrativo, il desiderio di rievocare per immagini alcuni concetti archetipici, universalmente condivisi dalle società tradizionali ed oggi ignorati, derisi o biasimati dall’attuale, attingendo dalla miniera mai esausta dei miti greci: ricorrente sarà stato il concetto-valore della hybris, quindi del rispetto o della violazione della regola, quindi della pena sovrannaturale che ricade sul reo o sui suoi discendenti perché colpevoli del gravissimo atto, non sempre solo meramente umano, della tracotanza; oppure, al fine del racconto visivo, sarà stato preso come spunto il mito della metamorfosi, come rimedio alla propria natura umana o come fuga da essa stessa.
La trasformazione corporale uomo-pianta non è che risultante finale e conseguenza necessaria ad un’azione impropria, inopportuna, compiuta al di fuori di un centro, quindi eccentrica, al di là della norma, della pertinenza e quindi impertinente.

La seconda costante progettuale è stata la volontà di utilizzare, solo o prevalentemente, materiale di recupero: sassi, cortecce, rami, sezioni di tronco, piante vere o di stoffa, riciclate e plastificate. E’ una costante materica e tecnica non casuale, poiché, nella sua forma, dà corpo ai contenuti narrativi che veicola: la trasformazione di uomini in alberi è, per analogia, affine al materiale di scarto che, riadattato e riplasmato a nuova pertinenza, assurge a nuovo uso e valore.

La terza, e forse la più evidente, è stata la scelta formale e mediatica di far comunicare bidimensione e tridimensionalità in pitto-sculture.
Talvolta con finalità meramente decorative, col semplice desiderio di creare un piacevole complemento d’arredo da esporre nel salotto buono di casa; talaltra, tramite corpi aggettanti che si stagliano da uno sfondo percettivamente e narrativamente coerente, col tentativo di favorire l’illusione di un laccio tra il dentro al quadro e il fuori dal quadro dello spettatore.
Quest’ultima è una pratica non certo nuova alla storia dell’arte in generale od al Barocco italiano in particolare, ma all’oggi è quasi prerogativa esclusiva del digitale. E se ne può in parte intuire il perché: l’illusione originata dall’algoritmo è più vera del vero e la sensibilità del fruitore moderno non può che essere tarata su tale grado di eccellenza tecnica. L’abitudine alla velocità, fornita dal web nell’input-output incessante d’informazioni, privilegia la snellezza e la spendibilità di una grafica iperrealista, leggera ed iperbolica, tagliata e incollata all’infinito; la moda dell’autoscatto e delle innumerevoli applicazioni portano qualsiasi navigante a calare il proprio volto nei più disparati contesti visivi; l’uso sempre più famigliare del 3D immersivo degli attuali videogames e di certo cinema stereoscopico, nonché la sofisticatissima realtà virtuale ormai alla portata di tutte le tasche, incoraggiano lo spettatore-consumatore-venditore di sé a divenire protagonista assoluto di ogni immersione mentale, visiva, uditiva, tattile e degustativa dell’oggetto quadro e a viverne la spazialità iperfisica con la pienezza della propria individualissima persona.
E’ il parossismo dell’io. Di un io che è anche dio. Di un dio leggerissimo.
Di un dio light.
Questo progetto vorrebbe che, solo per un attimo, lo spettatore riacquistasse il piacere di ascoltare alcune favole mitiche, ad esempio di un Adone o di un Sisifo, volte a parlargli della virtù e del vizio della collegialità umana in cui è inserito e che, per una volta, lo spettatore non si concentrasse esclusivamente sul proprio immanente soliloquio.
Queste pitto-sculture neo-barocche vorrebbero riesumare, solo per un momento, quell’abilità antica, desueta, apparentemente passiva, nostalgicamente pesante, fascinosamente fatalistica, di saper aspettare ed osservare; del contemplare, raccogliendo con fiducia piccole bacche di informazioni eterodirette, senza andare spasmodicamente a caccia di altre, autoreferenziali, rimanendo ancorato ad uno spazio visivo, tattile, fisico e collettivamente condivisibile, qui ed ora, attendendo che arrivi qualcosa od anche assolutamente niente, ma che sia comunque l’espressività dell’opera, dipinta e scolpita, ad andargli in contro e non viceversa.

Questo progetto non vuole ammonire nessuno. Non ne avrebbe le credenziali. Anch’esso è frutto dell’impalpabilità delle singole variabili umane. E’ esso stesso leggero come carta velina, nella miriade di pensieri e discorsi sull’uomo. Semplicemente questo progetto nutre una certa simpatia per il peso di una centralità, centralità in via d’estinzione, perché solo essa, con la sua esistenza, permette il senso di una tracotanza reale, di una fuoriuscita non fasulla e modaiola dal suo perimetro. Solo con la salvaguardia di una norma si dà la possibilità di sognare una trasgressione. E i sogni più belli appartengono alle notti dei bambini, quando questi possono spezzare le catene imposte dai padri e dalle madri.
Questo progetto adora la leggerezza, ma solo in quanto risultante di una pesantezza universale; è attratto dalla ribellione di quelle spiritosaggini tragiche che scaturiscono dalla forza di gravità. Forza di gravità democratica perché, senza distinzioni, schiaccia, deforma, sorregge, lega, collega, accomuna tutti. Piante, animali, uomini e dèi.
Allora i supporti delle opere saranno pesanti come macigni, le cortecce verranno imbottite di cartapesta, le statuine di polistirolo avranno forme di ninfe panzute e cicciottelle. Anche i cavalli del dio Apollo saranno brocchi pesanti.
Eppure essi voleranno.

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