La figura è ferma. Ogni movimento è lasciato all’intuito di un prima e un dopo che non è dato conoscere. La posizione visivamente aggressiva può inficiare l’esperienza della percezione. L’abito è supporto al quale reggersi per non scivolare via. Quale che sia, l’abito. Il confine tra auto-mutilazione e sofferenza inflitta è labile. In quello spazio piccolissimo fra il punto di vista e l’auto-rappresentazione –stretto quanto una ferita in cui si ha voglia di infilare le dita per vedere se è vera - lì sta la performance del dolore che si mescola con la verità costituita di una parvenza “normale”. L‘occhio che guarda mette in atto i meccanismi epistemologici che ha a disposizione, liberamente: la supposizione, il preconcetto, la mimesi. La maschera si restringe fino a solidificarsi in un centro, privata del suo senso originario- una maschera che non è più protettiva. E’ manomessa, una barriera che chiude dall’esterno e dall’interno. I vetri che schermano gli occhi diventano pupille. Ogni dettaglio nell’immagine è discutibile, fraintendibile. Il ruolo di chi guarda si carica di valore conoscitivo e costruttivo di senso.
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celeste,
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