Il velamento, simbolo antico, possiede differenti significati: può essere indice di appartenenza religiosa, riportando ad un bisogno di trascendenza, di rinuncia al mondo; può servire a rivendicare un’identità culturale; può suggerire l’idea della seduzione femminile, in un gioco ambiguo che conduce a velare per svelare e viceversa. Di certo, non si tratta di un simbolo neutrale. Il velo è presente in qualsiasi rappresentazione della sacralità, nei luoghi di culto come nell’arte. È un attributo di Dee e Madonne, Sibille e Regine, Sacerdotesse e Spose, Sante e Imperatrici: donne di cui sottolinea la suprema dignità e il ruolo di custodi dell’ordine cosmico e della saggezza divina. È il medesimo velo che indossavano Mosè per parlare al suo popolo. Lo stesso velo che nel Tempio di Gerusalemme proteggeva il sancta sanctorum, e che - in pietra o legno finemente traforati - separa tuttora i fedeli dall’officiante nelle chiese ortodosse. Così la kippah ebraica e il cappello del karmapa tibetano proteggono la sommità del capo dalla fuoriuscita delle energie spirituali che sorreggono l’assialità dell’essere. In quel punto, che congiunge l’uomo al Cielo e che la tradizione indù descrive come il “loto dai mille petali”, il sacerdote cattolico pratica la tonsura. Ma anche i morti hanno un velo. Secondo la tradizione islamica fu un uccello a suggerire a Caino di coprire Abele con un sudario. La pietra tombale protegge i defunti dalle interferenze dei vivi, e ricorda ai vivi che anch’essi sono prigionieri di un sudario, quello dei sensi.