In-naturale si basa sulla manipolazione e modificazione di fiori veri, ai quali aggiungo o sostituisco alcune parti, inserendo oggetti completamente estranei alla natura: il risultato viene poi fotografato per documentare e fissare nel tempo queste microsculture. Gli interventi attuati sono quasi impercettibili a prima vista, ma una didascalia indica e svela tutti gli “ingredienti” utilizzati imponendo allo spettatore uno sguardo più attento. A questo punto, appare chiaro che esiste una contraffazione del fiore realizzata attraverso l’uso di materiali artificiali, che sono tranquillamente colti come naturali nonostante l’immagine fotografica sia notevolmente ingrandita. Ne nasce uno stupore, ma anche il disagio di fronte ad una perdita, constatando quanto ci si sia allontanati dalla natura, tanto da viverla superficialmente e in modo scontato, non distinguendo oramai più ciò che è vero da ciò che è finto, ciò che è mutevole da ciò che è inerte. All’inizio, seppure i fiori mi intrigassero, ero un po’ restia a considerarli come un possibile soggetto, in quanto mi sembravano troppo rappacificanti, troppo muliebri, anche un po’ banali. Nonostante queste considerazioni però, come un insetto ne ero continuamente attratta, soprattutto per la perfetta varietà delle forme e la forza dei loro colori. Inoltre dicevo a me stessa, che l’attenzione per la natura considerata nel dettaglio e nella sua infinita ricchezza e bellezza, appartiene naturalmente al mondo femminile, in quanto le donne hanno un rapporto reale e tangibile con i prodotti della terra. Infatti, tra le prime nature morte seicentesche, primeggiano quelle ad opera di pittrici, quali Fede Galizia, Louise Moillon, Clara Peters, che scoprirono presto come il nuovo genere ben si adattava alla loro condizione sociale. Inoltre non potevo negare l’interessante ed indiscutibile valenza simbolica dei fiori, dato che sono da sempre legati al concetto di impermanenza dell’esistenza. Mentre, animata da una vena ecologista ne costruivo di enormi fatti di zucchero, perché potessero servire da stazione di sosta per le api ormai in estinzione, piano, piano sono passata a considerare i fiori veri, prima secchi poi freschi. Ben presto mi sono resa conto di quanto fossero adatti a rappresentare il tema della decadenza della nostra società, in una chiave apparentemente più edulcorata e non necessariamente lacerante e drammatica. Essendo il fiore, simbolo per antonomasia di purezza incorrotta, semplicità e naturalezza, fin da subito si è ben prestato nella mia ricerca come soggetto ottimale per un gioco illusorio, e per la veicolazione insospettata di un artificio, di una contraffazione. Anche perché è bello e accattivante. Mutarlo in alcune parti collegava il mio lavoro a tutta una serie di rimandi circa la volontà di potenza propria della specie umana e ad una serie di espedienti, che il sistema del profitto applica ai suoi prodotti. Nonostante prediliga l’aspetto simbolico della pittura, ho scelto la fotografia, perché restituisce più fedelmente la realtà, dando ad una natura morta, un’ulteriore valenza di morte, tema questo, che ho sempre trattato in tutto il mio percorso artistico. La fotografia mi permette inoltre, grazie ad un taglio da documentazione quasi laboratoriale, di calibrare la qualità dell’immagine dandole un aspetto volutamente non troppo leccato, potendo così restare in un ambito più concettuale, dove il progetto e l’oggetto sono superiori come importanza al risultato estetico. Così, noncurante della diatriba tra quale arte detenga la supremazia tra pittura e fotografia, io mi limito ad una scelta intermedia. Infatti, prima agisco come un artista plastico, perché modello, dipingo, fondo i diversi materiali che mi servono per ottenere un dato effetto, o un petalo che sembri uguale ad uno vero. Poi come un fotografo, scatto per oggettivare il mio artificio, avvalendomi della presunta fedeltà della fotografia di immortalare realisticamente i soggetti ripresi. Ricostruire un pistillo o una parte di fiore, tanto che sembrino assolutamente credibili, appartiene forse anche alla “ubris” dell’uomo di volersi sostituire a Dio, pur osannandolo con la propria opera, ed è la pretesa dell’artista di ricreare il creato. La natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte, e a sua volta l’arte non può essere chiamata bella se non quando noi, pur essendo consci che è arte, la consideriamo come natura (Kant). Cimentarmi in queste mutazioni, ritoccare una corolla, aggiungere delle spine, mi dà il brivido del chirurgo plastico, o l’assurda esagerazione di Lucifero, anche per la spiccata forza sessuale che ogni fiore racchiude in sé. Nelle mie contaminazioni però non ho mai desiderato spingermi al livello di alcuni bio-artisti, che lavorano agendo all’origine, ovvero modificando il DNA di alcuni vegetali per trasformarne l’aspetto; anche se la loro ricerca ovviamente mi affascina . Io voglio trattare un tipo di sofisticazione più vicina a quella che incontriamo tutti i giorni nel cibo o nei materiali che tocchiamo. Per questo uso colle, smalti, conservanti, cere, plastiche, agenti chimici, cosmetici, vernici, medicine, elementi organici, parti vegetali o animali, ecc... Fotografo i miei fiori modificati anche una volta appassiti, documentando come le parti artificiali rimangano intatte rispetto al resto, cosa che mi porta inevitabilmente a pensare alle protesi nei cadaveri, agli arti artificiali intatti su corpi decomposti e a tutti i seni rifatti che dureranno oltre la bellezza svanita; lavorare intorno ai fiori trasformandoli, mi ha permesso una dimensione raccolta, rivolta al particolare e mi ha graziato di un contatto contemplativo e al tempo stesso palpitante. Chissà, forse un giorno, potrei pensare di scrivere anch’io sotto ognuna di queste opere: “Ceci n’est pas une fleur”…